Inari 稲 荷
O-inari / O-inari-sama
Dio / Dea Shinto del riso e cibo
Messaggero: La volpe 狐 (Kitsune)
Origine: hindu, cinese e giapponese
Kami correlati. Inari, O-Inari-San, Kodomo-no-Inari, Uga no Mitama no Kami, Ukemochi no Kami, Ogetsu-no-hime.
Altre divinità correlate. Lakshmi (India); Dewi Sri (Java); Cerere (Roma); Demetra (Grecia); Vergine del mais (Lakota); Yumil Kzxob (Maya).
Inari è il Kami della fertilità, del riso, dell’agricoltura, del successo e della ricchezza e della prosperità materiale. Noto anche come protettore della coltivazione del riso; patrono dei fabbri della spada; mecenate dei commercianti; associato a bordelli e a intrattenitori in generale; è venerato anche come guaritore.
Inari è oggi una figura popolare sia nelle credenze shintoiste che in quelle buddiste giapponesi.
Inari è rappresentato sia come maschio che come femmina, talvolta anche androgino. Talvolta è considerato come un collettivo di tre o cinque Kami individuali.
Le opere pre-moderne raffigurano Inari come un uomo barbuto in piedi su un sacco di riso con due volpi che lo fiancheggiano, o come una donna con i capelli lunghi che trasporta covoni di riso a cavallo di una volpe bianca.
Dall’XI° secolo è strettamente associato alle volpi, considerate sue messaggere.
Uka no Mitama no Kami. (Talvolta detto Uga no Mitama: la K e la G hanno assonanza fonetica). Nelle prime registrazioni, Inari è identificato con Uka no Mitama no Kami, la Dea shintoista dell’agricoltura, che ha anche una controparte maschile di nome Uga no Mitama no Mikoto, lo spirito del cibo. Secondo la leggenda, sarebbe colui che per primo coltivò il riso, a cui poi venne dato il titolo onorifico Inari Sama.
Secondo il Kojiki, Ukanomitama no Kami era il figlio di Susano no okami e Kamuoichihime no kami. “Uka” nel nome significa cibo, dunque il nome indica “lo spirito misterioso che dimora nel grano”.
In breve, Ukanomitama no Kami è conosciuto come il Kami dei cereali e degli alimenti in generale, nonché il Kami della radice della vita e che ha padronanza delle fonti della vita stessa.
Secondo la tradizione, il monaco Kobo Daishi incontrò vicino a Toji, nell’811, un uomo anziano che portava sulla schiena un fascio di riso e, riconoscendo in lui il protettore del suo tempio, gli diede il nome di Inari (portatore di riso). In seguito a questo evento, si pensa che per un qualche malinteso, o una certa confusione relativa al nome Mikitsune Uga No Mitama, abbia causato l’identificazione dello Spirito della Divinità Alimentare, o Dio del Riso, con una divinità della Volpe, detta kitsune.
Da qui deriverebbe l’associazione di Inari con la Volpe (Kitsune), ritenuta il messaggero del Kami. Infatti, Inari Sama viene spesso descritto come il Dio della Volpe e viene solitamente presentato sotto le spoglie di un vecchio barbuto che trasporta un fascio di riso, accompagnato da una volpe o seduto cavalcioni si di essa.
Per contro, le volpi sono sempre presenti davanti alla porta di ingresso dei santuari dedicati a Inari.
Ukemochi no Kami. Inari è anche associato alla dea del cibo Ukemochi no Kami, oppure Ogetsuhime no kami.
Ukemochi e Ogetsu appaiono nella letteratura dell’inizio dell’VIII secolo. Nonostante i nomi diversi, i due condividono attributi comuni e sono probabilmente manifestazioni della stessa divinità. In effetti l’unica differenza tra i due è che Ukemochi appare nel Nihon Shokki mentre Ogetsu è menzionato nel Kojiki.
A volte Ukemochi è identificata come Wakaukonome (Giovane donna con cibo) ed è associata a Toyuke (Toyouke) Okami, il dio del cibo dell’abbigliamento e delle case custodito nel Santuario esterno di Ise.
Una tradizione narra che Inari fu un tempo sposato con Ukemochi/Ogetsu, e dopo che la dea morì Inari intervenne per sostituirla come protettrice del raccolto di riso.
Nel Nihon Shoki si narra che un giorno il Kami della Luna Tsukuyomi venne inviato sulla terra da sua sorella Amaterasu (Kami del Sole), per presenziare ad un banchetto offerto dalla dea del cibo Ukemochi.
Secondo la versione del Kojiki, non si trattava di Tsukuyomi, ma di Susanō, fratello di Amaterasu e Kami della Tempesta.
Ukemochi quindi preparò il cibo: voltandosi verso l’oceano sputò un pesce, voltandosi verso la foresta fece uscire dal suo ano la selvaggina e, infine, rivolgendo lo sguardo ad una risaia tossì una ciotola di riso. Le pietanze erano squisite ma Tsukuyomi ne fu completamente disgustato, al punto che estrasse la spada e uccise Ukemochi. Quindi tornò dalla sorella e la informò di quanto accaduto e, ancora arrabbiato, le disse: «D’ora in poi non ti incontrerò mai più faccia a faccia».
Amaterasu inviò allora un altro messaggero il quale scoprì che, anche dopo la sua uccisione, il corpo di Ukemochi continuava a produrre cibo: miglio, riso, fagioli ed altro ancora, persino bachi da seta, così che ebbe inizio anche la sericoltura. Amaterasu aveva dunque seminato il cibo per il futuro dell’umanità.
Un’altra versione del mito narra che:
Ora, il nome della terza divinità che governava queste “otto isole” (Yashima) era Toyokunnu. Avendo assunto il comando celeste, divideva i discendenti degli dei nelle tre file di kimi (sovrani), tomi (ministri), e tami (la gente), ognuno con il suo ruolo speciale nell’organizzazione del paese. “Toyokunnu aveva un fratello minore di nome Ukemochi. Mentre Ukemochi stava pregando Amemiwoya (la “divinità genitrice”) per il suo fervido desiderio di portare prosperità alla gente, venne esaudito e i semi hiyouru caddero sulla terra. I semi hiyouru contenevano lo spirito del Sole e della Luna. QuandoUkemochi piantò questi semi in un campo umido, crebbero delle piantine di riso e quando giunse il primo giorno dell’ottavo mese, le orecchie delle piantine si erano fatte pesanti e diedero un ricco raccolto.
Il primo giorno dell’ottavo mese secondo il calendario lunare, Toyokunnu a sua volta offrì il riso alle divinità Amemiwoya e Ameminakanushi e organizzò una festa di ringraziamento. Quindi il riso fu distribuito tra la gente in modo che tutti potessero godere delle benedizioni di questo ricco raccolto. Il cibo per la gente aumentò e le loro vite divennero più ricche e la pace regnò a lungo sulla terra.
Il popolo dette a Ukemochi il nome popolare di Inari e la sua fama fu tramandata ai posteri.
Iniziò così l’usanza del festival di Hassaku, in cui si invitano per festeggiare e scambiarsi doni, il primo giorno dell’ottavo mese.
Oggi in Giappone, si dice che il primo a coltivatore il riso fu la Dea del Sole Amatereshu-Omi-Kami, che coltivava riso nei campi del cielo, e diede il primo raccolto al principe Ninigi. Ma nel Kojiki, il più antico scritto compilato in Giappone nel 712 d.C., si dice che il riso giunse dagli occhi della dea del cibo Ogetsuhime.
Benzaiten. Durante l’era Heian, la potente setta Buddhista Tendai fuse la divinità femminile hindu-buddhista Benzaiten con un oscuro Kami locale di nome Ugajin, che molte fonti ritengono essere una sorta di variante locale di Uka no Mitama. Da questo sincretismo si generò la divinità nota come Uga Benzaiten, che presiede alla ricchezza e alla fertilità incorporando sia gli attributi shintoisti che buddisti, e adempie molti degli stessi ruoli di Inari.
Ugajin è rappresentato sia come maschio che come femmina, ed è spesso raffigurato con il corpo di un serpente e la testa di un uomo barbuto per la variante maschile, oppure con la testa di una donna per la variante femminile.

Inari è generalmente associato a varie manifestazioni della Dea hindu Dakini. In sanscrito il nome Dakini è composto da “dak” che significa fare cenno con il suono, chiamare, bussare, ed “ini” che è associato alle radici delle parole per indicare il genere femminile. Dakini è descritta nelle leggende medievali dell’India del Nord come un demone affine alla Dea Kālī, che si nutre di carne umana. Menzionata come la Dea dei punti di svolta della vita, Dakini è oggi adorata principalmente in Tibet, e può apparire in molteplici manifestazioni.
La figura della Dakini si diffuse nella cultura giapponese attraverso il Buddismo Shingon durante l’inizio del IX secolo, evolvendo nel Dakini-ten: la leggenda narra che la Demone Dakini fu convertita da Buddha Vairocana (Dainichi) in una potente divinità che genera la vita, chiamata appunto Dakini-ten, che aveva come messaggero una volpe bianca, e infatti era chiamata anche Shinkoō-bosatsu (il Bodhisattva Volpe Regina delle Stelle) o ancora Kiko-tennō (Nobile Volpe-Sovrana Celeste).
Dakiniten è un’apparizione improvvisa, una divinità femminile in abiti svolazzanti che schizza in una cornice di schiuma su un mare ondeggiante. In sella ad una volpe bianca sopra una nuvola tenuta in alto da due draghi, stringe un vajra (fulmine) sormontato da una spada, un simbolo del potere buddista. Nel palmo della sua mano tiene una triade di gioielli sacri, mentre altri sono sparsi tutt’intorno a lei come benedizioni di abbondanza. Nella sua corona sono talvolta raffigurati promettenti protettori del raccolto: volpi minuscole su serpenti bianchi arrotolati, come quelli che le circondano i polsi. Sopra, un’altra triade di gioielli sacri poggia su un loto aperto, fiancheggiato da simboli cinesi delle forze complementari del Sole e della Luna .
Nella complessa interazione di pratiche buddiste, shintoiste e taoiste nel Giappone medievale, questa icona incarnava poteri di fecondità quasi magici, che venivano invocati non solo nei rituali di intronizzazione, ma anche in contesti personali.
Il mantra identificato con questa divinità veniva intonato per ottenere il controllo sulla mente di altre persone, così i racconti medievali narrano le invocazioni di Dakiniten da parte di uomini e donne che volevano conquistare una posizione di rilievo ed un certo favore a corte, oppure per questioni sentimentali.
Nel Medioevo l’Imperatore del Giappone cantava davanti ad un’immagine della volpe Dakiniten durante la propria cerimonia d’incoronazione. Inoltre, sia il monarca che gli shōgun dovevano costantemente rendere onore alla Dakiniten, credendo che, nel momento in cui avessero smesso di renderle omaggio, sarebbero caduti in disgrazia.
Daikokuten. In seguito, Dakiniten venne a sua volta associata a Daikokuten, una divinità evoluta dalla forma buddista della divinità hindu Shiva intrecciata con il Kami shintoista Ō-kuninushi-no-Mikoto (o Okuninushi-no-Kami), un’altra divinità shintoista del riso. Daikoku è il portatore di una mazza chiamata Uchide no kozuchi, altrimenti nota come “maglio della fortuna”: si tratta di un martello magico che può far materializzare qualsiasi cosa si desideri.
Daikoku, come Benzaiten, è annoverato tra le Sette Divinità della Buona Fortuna (Shichifukujin).
Da notate è che Inari, Uga Benzaiten e Daikokuten hanno ciascuno dei messaggeri di colore bianco: Inari è associato alla volpe bianca, Benzaiten ad un serpente bianco e Oo-kuninushi ad una lepre bianca.
Inari come patrono dei fabbri della spada. Si narra che un giorno fu ordinato a Munechika, un famoso costruttore di spade, di fabbricare una spada per l’Imperatore. Desiderando di svolgere al meglio il compito affidatogli, Munechika decise di visitare un Santuario Inari per pregare il Kami e riceverne aiuto. Mentre pregava, Inari apparve e lo aiutò a costruire una spada di superba bellezza. (Storia di un gioco Noh giapponese).
Santuari e Matsuri dedicati a Inari. Uno dei più antichi santuari di Inari è Fushimi Inari Taisha nel sud-est di Kyoto. Alcune fonti dicono che ci sono più di 20.000 santuari a livello nazionale dedicati a Inari. Inari è celebrato in un festival shintoista durante i primi giorni della primavera, quando inizia la coltivazione.
Dedicato a Uka no Mitama no Kami, è il Santuario di Kasama Inari, uno dei tre più grandi santuari di Inari in Giappone, essendo stato insignito dell’antico rango di primo grado. Secondo la leggendaria storia del santuario, Kasama Inari fu fondato nel 651 durante il regno del 36 ° imperatore giapponese, Kotoku, vantando così una storia di ben tredici secoli. In particolare durante il periodo Tokugawa, il santuario Kasama Inari ricevette il devoto patrocinio del signore feudale del dominio di Kasama e diffuse la sua influenza, non solo attraverso la regione di Kanto, ma in tutto il Giappone. Attualmente, il santuario è visitato da oltre 3,5 milioni di pellegrini ogni anno.
Kodomo No Inari è il dio della volpe dei bambini. Nel primo giorno del mese del Cavallo – Uma no I – (febbraio), i bambini che vivono nella campagna fabbricano delle piccole bandiere con carta di vari colori, dal rosso, al giallo, al blu, e scrivono su di esse il nome di Inari per poi offrirle in dono al santuario.
Inari è anche venerato durante il Fuigo matsuri, il Festival dei Soffi, celebrato l’8 novembre in onore di Hettsui no kami, Dea della cucina.
Seconda guerra mondiale (raccontata da Kagari Ando). Durante gli anni di disagio che hanno accompagnato la Seconda Guerra Mondiale, le persone nella città di Kyoto hanno tenuto sessioni di meditazione per invocare l’aiuto di Inari.
Per facilitare il contatto con il Kami, venne utilizzato un sistema che ricorda vagamente la tavola Ouija. Furono posizionate sul pavimento delle carte su cui erano dipinti i caratteri giapponesi. Al centro delle carte fu posto uno strano congegno: tre bacchette in piedi, appoggiate l’una contro l’altra, come un teepee, e all’interno della congiunzione a tre punte nella parte superiore era stato collocato un ochoko (tazza per bere).
Riuniti, i presenti iniziarono a recitare il nome di Inari, quindi venne posta una domanda (ad esempio qualcuno volle sapere se il figlio fosse ancora vivo), e infine vennero intonati dei canti dedicati a Inari. Ed ecco che la struttura formata dalle bacchette e dalla tazza iniziò a muoversi, scrivendo la risposta utilizzando le carte.
Inari e le Volpi. Secondo il Kasama Inari Shrine, nell’antico Shintoismo, si credeva che il “kami di montagna” scendesse dalla sua residenza invernale in montagna per diventare il “risaia kami” (ta no kami) in primavera, soggiornando lì durante la successiva stagione agricola. Dopo la raccolta autunnale, la divinità sarebbe tornata ancora una volta nella sua casa invernale in montagna nel suo ruolo di “kami di montagna”. Tutto questo probabilmente è avvenuto nello stesso momento in cui le volpi apparivano ogni stagione. In quanto tale, la volpe divenne naturalmente nota come il messaggero di Inari.
Il termine giapponese Kitsune indica le volpi. Questi animali sono strettamente legate alla figura di Inari che, secondo la tradizione, risiedeva in montagna nei periodi invernali per poi scendere a valle in primavera durante la stagione agricola. Finito il periodo del raccolto, Inari sarebbe tornato ancora una volta nella sua residenza invernale. Nello stesso modo, ogni primavera le volpi si avvicinavano alle abitazioni degli uomini, venendo col tempo riconosciute come naturali messaggere di Inari. Inoltre, queste volpi dovevano anche essere placate, al pari di Inari, altrimenti sarebbe disastroso per il sostentamento degli agricoltori e dei popoli della nazione.
Il legame tra Inari e le volpi ha contribuito a rafforzare la credenza in una essenza soprannaturale della volpe, tanto che essa stessa è talvolta venerata come Kami. Infatti, anche se la Kitsune è raffigurata quale serva o messaggera di Inari, la linea di demarcazione tra i due si è ormai talmente assottigliata che talvolta lo stesso Inari è ritratto come una volpe, sebbene sia i sacerdoti shintoisti che quelli buddisti scoraggiano questa rappresentazione.
Allo stesso modo, interi santuari sono dedicati alle Kitsune, dove i devoti sono soliti offrire fette di tōfu fritto chiamate aburaage, di cui gli spiriti-volpi si dice siano particolarmente ghiotti. Tale pietanza ha addirittura influenzato la preparazione e la diffusione di piatti chiamati kitsune udon e kitsune soba. Inoltre l‘inarizushi è un tipo di sushi che deve il nome al dio Inari e che consiste in polpette di riso rivestite di aburaage.
Le Kitsune di Inari sono bianche, colore considerato di buon auspicio, caratteristica che in passato valse loro il titolo nobiliare di myōbu. Esse possiedono il potere di allontanare il male, e talvolta agiscono da spiriti guardiani. Oltre a proteggere i santuari di Inari, esse proteggono le persone del posto fungendo da spauracchio contro le malvagie Nogitsune, gli spiriti-volpe che non sono al servizio di Inari.
Anche volpi nere e le volpi a nove code sono altresì considerate come portafortuna.
Il termine giapponese Kitsune indica le volpi. Questi animali sono strettamente legate alla figura di Inari che, secondo la tradizione, risiedeva in montagna nei periodi invernali per poi scendere a valle in primavera durante la stagione agricola. Finito il periodo del raccolto, Inari sarebbe tornato ancora una volta nella sua residenza invernale. Nello stesso modo, ogni primavera le volpi si avvicinavano alle abitazioni degli uomini, venendo col tempo riconosciute come naturali messaggere di Inari. Inoltre, queste volpi dovevano anche essere placate, al pari di Inari, altrimenti sarebbe disastroso per il sostentamento degli agricoltori e dei popoli della nazione.
Il legame tra Inari e le volpi ha contribuito a rafforzare la credenza in una essenza soprannaturale della volpe, tanto che essa stessa è talvolta venerata come Kami. Infatti, anche se la Kitsune è raffigurata quale serva o messaggera di Inari, la linea di demarcazione tra i due si è ormai talmente assottigliata che talvolta lo stesso Inari è ritratto come una volpe, sebbene sia i sacerdoti shintoisti che quelli buddisti scoraggiano questa rappresentazione.
Allo stesso modo, interi santuari sono dedicati alle Kitsune, dove i devoti sono soliti offrire fette di tōfu fritto chiamate aburaage, di cui gli spiriti-volpi si dice siano particolarmente ghiotti. Tale pietanza ha addirittura influenzato la preparazione e la diffusione di piatti chiamati kitsune udon e kitsune soba. Inoltre l‘inarizushi è un tipo di sushi che deve il nome al dio Inari e che consiste in polpette di riso rivestite di aburaage.
Le Kitsune di Inari sono bianche, colore considerato di buon auspicio, caratteristica che in passato valse loro il titolo nobiliare di myōbu. Esse possiedono il potere di allontanare il male, e talvolta agiscono da spiriti guardiani. Oltre a proteggere i santuari di Inari, esse proteggono le persone del posto fungendo da spauracchio contro le malvagie Nogitsune, gli spiriti-volpe che non sono al servizio di Inari. Anche volpi nere e le volpi a nove code sono altresì considerate come portafortuna.
Tipologie di Kitsune. Vi sono diverse tipologie di Kitsune, di cui due principali: le zenko, letteralmente “volpi buone”, sono volpi celestiali e benevole, associate al culto di Inari, e le yako, letteralmente “volpi di campo”, chiamate anche nogitsune, che invece, posseggono un carattere malizioso e intenzioni malvagie.
Le tradizioni locali prevedono ulteriori tipi di kitsune: una ninko, “volpe umana”, per esempio, è uno spirito di volpe invisibile, capace di interagire con gli esseri umani attraverso la pratica della possessione. Altre tradizioni suddividono le kitsune in tredici classi distinte, ognuna delle quali possiede uno specifico potere soprannaturale.
Volpi a nove code. I racconti popolari cinesi parlano di spiriti-volpi chiamati huli jing, in Corea vi è la figura del kumiho che letteralmente significa “volpe a nove code”, mentre in Giappone ci sono le kyūbi no kitsune che posseggono appunto nove code quale peculiare caratteristica. Si tratta di una creatura mitologica in grado di vivere cento o mille anni, che in Cina viene vista come un essere malvagio, a differenza della sua controparte giapponese. Più una Kitsune è vecchia, saggia e potente, più code possiede, fino a un massimo di nove. Alcuni racconti popolari narrano che solo le volpi ultracentenarie possano ambire al numero massimo di code. I miti più conosciuti narrano di volpi a una, cinque, sette, o nove code. Quando una kitsune ottiene la sua nona coda, il suo manto diviene di colore bianco o oro. Queste kyūbi no kitsune ( volpi a nove code) acquisiscono anche l’abilità di vedere e sentire qualsiasi cosa accada in ogni parte del mondo (onniscienza), e altri racconti attribuiscono loro infinita saggezza.
Mutaforma. Secondo la mitologia giapponese la volpe è un essere dotato di grande intelligenza, in grado di vivere a lungo e di sviluppare con l’età poteri soprannaturali: il principale tra questi ultimi è l’abilità di cambiare aspetto ed assumere sembianze umane, che la volpe può apprendere una volta raggiunta una determinata età, solitamente 50 o 100 anni.
Infatti, esse appaiono spesso con l’aspetto di una bella donna. In alcuni racconti le Kitsune utilizzano queste abilità per ingannare il prossimo — come sovente avviene nel folklore comune — mentre altri le ritraggono come guardiani benevoli, amiche, amanti e mogli. Nel Giappone medioevale si credeva che ogni donna vista aggirarsi senza meta, specialmente al crepuscolo o di notte, fosse una volpe.
Il termine kitsune-gao (faccia da volpe) viene usato per descrivere i lineamenti umani del viso delle donne, caratterizzato da una forma affilata e occhi ravvicinati, sopracciglia sottili e zigomi alti. Tradizionalmente questa forma del viso è considerata attraente, e in alcuni racconti le volpi assumono tale fisionomia. In alcune varianti dei suddetti racconti le kitsune mantengono dei tratti volpini, come ad esempio una leggera peluria sul corpo, un’ombra o un riflesso che mostri la loro vera natura.
Le volpi che possiedono questa capacità possono comunque trasformarsi in qualsiasi persona, senza limiti di età o di genere: per poter compiere tale trasformazione la volpe deve posare sulla propria nuca delle canne, una foglia di grande dimensioni o un teschio.
Un buon metodo per scoprire la vera natura delle Kitsune è cercarne la coda, in quanto esse hanno difficoltà a nasconderla quando assumono forma umana. Una persona particolarmente leale, in alcuni casi, può essere anche capace di percepire la vera natura di una volpe e di smascherarne il travestimento. Mentre sono in forma umana, le Kitsune mostrano astio e ostilità verso i cani, tanto da esserne terrorizzate ed essere costrette in alcuni casi a ritornare in forma volpina e fuggire (come ad esempio avviene nel racconto “Torna e Dorme” di Kyoukai).
Tale imperfezione nella trasformazione in forma umana delle Kitsune è raccontata all’interno di un racconto popolare che ha come protagonista Koan, un personaggio storico che si credeva avesse grande saggezza e magici poteri di divinazione. Secondo il racconto egli si trovava a casa di uno dei suoi devoti quando si ustionò i piedi a causa di un pediluvio con acqua troppo calda. Poi, si legge nel racconto, «per il dolore corse fuori dal bagno nudo. Quando la gente della casa lo vide, si stupirono nel vedere che Koan avesse gran parte del corpo ricoperto da pelliccia e una coda di volpe. A quel punto Koan si trasformò di fronte a loro, tramutandosi in un’anziana volpe e scappando via».
Le Kitsune sono generalmente rappresentate come amanti, di solito in storie che coinvolgono un giovane maschio umano e una Kitsune sotto forma umana. La kitsune è nota per la sua indole tentatrice e seduttrice, ma queste storie sono sovente di natura romantica. In genere, quando il giovane uomo sposa la volpe, non è a conoscenza della sua vera natura, in quanto ella si dimostra essere una moglie devota. Se il marito eventualmente scoprisse la vera identità della kitsune, allora ella sarebbe costretta a lasciarlo e fuggire. In questo caso il marito si sveglia come da un sogno, sporco, disorientato e lontano da casa. Una volta fatto ritorno egli deve fare i conti con la famiglia che ha disonorato con il proprio comportamento.
Altre leggende narrano di volpi che, una volta andate in moglie a un umano, partoriscono dei figli. Questi hanno la possibilità di ereditare speciali qualità fisiche o soprannaturali che sovente perpetuano a loro volta ai propri figli. Una di queste leggende racconta la storia di Abe no Yasuna, il quale passando un giorno presso un tempio dedicato a Inari vide una volpe inseguita dai cacciatori, e impietositosi decise di salvarla fornendo agli uomini false indicazioni. Alcuni mesi dopo sposò una bella donna di nome Kuzunoha la quale gli diede anche un figlio. Tre anni dopo, Kuzunoha scappò via lasciando un biglietto nel quale confessava al marito di essere la volpe salvata così generosamente anni addietro. La leggenda vuole che il figlio dei due sia il famoso astronomo e occultista Abe no Seimei (921-1005), dotato di potenti poteri magici ereditati dalla madre kitsune.
Anche lo scrittore Stephen Turnbull, in Nagashino 1575: Slaughter at the barricades, racconta la storia del coinvolgimento del clan Takeda con una donna-volpe. Nel 1544 il signore della guerra Takeda Shingen, durante una campagna di conquista nella provincia di Shinano, sconfisse in battaglia un daimyō locale noto come Suwa Yorishige, costringendolo al suicidio. Successivamente obbligò la figlia quattordicenne di questi a sposarlo. Egli era talmente ossessionato dalla ragazza che i suoi seguaci si convinsero che ella fosse l’incarnazione dello spirito della volpe bianca del santuario di Suwa, che lo aveva stregato al fine di ottenere vendetta. Quando il figlio dei due, Takeda Katsuyori, guidò alla disfatta il clan nella battaglia di Nagashino i «vecchi saggi annuirono, ricordando le circostanze infelici della sua nascita e delle voci sui poteri della madre».
Altre abilità. Le Kitsune possono avere la capacità di sputare fuoco o fulmini dalla bocca o dalle code (conosciuta come kitsunebi), il potere di entrare nei sogni, l’invisibilità, la capacità di volare e di creare illusioni complesse ed elaborate.
Alcune kitsune hanno caratteristiche simili ai vampiri o ai succubi, nutrendosi dell’energia vitale degli esseri umani, generalmente attraverso un contatto sessuale.
Le kitsune vengono descritte anche come dotate di poteri ancora maggiori, come modificare il tempo e lo spazio, rendere le persone folli, oppure assumere altre forme oltre a quelle umane, come un albero d’incredibile altezza o una seconda luna nel cielo.
E’ noto che dalle kitsune non bisogna accettare ricompense che includano denaro o beni materiali, in quanto questi diverranno carta, foglie, rami, pietre o altri oggetti senza valore, mascherati precedentemente da oggetti preziosi grazie alla magia. Le ricompense delle kitsune sono solitamente beni immateriali come protezione, conoscenza e lunga vita.
Kitsune Tsuki. Significa possessione demoniaca di uno spirito volpe e, secondo la leggenda, si verifica soprattutto nelle donne. In effetti, i ricercatori dell’Università Imperiale del Giappone, nella prima parte del XX secolo, suggerirono seriamente che lo spirito volpe entra tipicamente nelle donne delle classi inferiori (quelle più inclini alla superstizione) attraverso il seno o tra le unghie. Sembra che, in alcuni casi, i tratti del viso della posseduta cambiassero leggermente, in modo da ricordare le fattezze di una volpe, e che persone analfabete, una volta possedute, acquisissero temporaneamente la capacità di leggere e scrivere.
Il folclorista Lafcadio Hearn (1850-1904) descrive questa condizione nel suo libro Glimpses of Unfamiliar Japan:
«Strana è la follia di coloro posseduti da un demone volpe. Talvolta corrono nudi gridando per le strade. Talvolta dormono o con la bava alla bocca e ululano come volpi. Su alcune parti del corpo del posseduto, compare sotto la pelle una protuberanza che si muove, che sembra avere vita propria. Pungila con un ago e immediatamente si sposta in un altro posto. Nessuna mano possiede una presa così salda da impedire che scivoli via dalle dita. La gente posseduta si dice che parli e scriva in lingue fino allora sconosciute. Mangiano solo ciò che sembra piacere alle volpi — tofu, aburaage e azukimeshi — e ne mangiano una gran quantità, come se non essi, ma la volpe che li possiede, fosse affamata.»
Hearn fa poi notare che, una volta liberata dallo stato di kitsunetsuki, la vittima si rifiuterà di mangiare tōfu, azukimeshi e altri cibi che piacciono alle volpi.
«L’esorcismo, spesso effettuato in un Santuario di Inari, può indurre la volpe a lasciare il corpo nella quale è ospitata. In passato, quando questa soluzione falliva o non era disponibile un sacerdote, il posseduto veniva malmenato o bruciato vivo nella speranza di costringere la kitsune ad andarsene. Intere famiglie sono state ostracizzate dalla loro comunità a causa di un familiare che si pensava fosse stato vittima di kitsunetsuki.»
In Giappone, il kitsunetsuki incominciò a essere trattato alla stregua di una malattia dal periodo Heian (794-1185), venendo indicato come diagnosi comune di infermità mentale fino al XX secolo. Lo stato di possessione veniva utilizzato come spiegazione per il comportamento anormale mostrato dagli afflitti da disturbi mentali.
Nel tardo XIX secolo, il dottor Shunichi Shimamura dichiarò che le malattie fisiche responsabili dell’insorgenza di febbre erano spesso ricondotte allo stato di kitsunetsuki.
È indubbio che la maggior parte di tali storie di possessione ad opera di spiriti volpe siano influenzate dalle credenze popolari ma, ciò nonostante, esse continuano a verificarsi anche in tempi più recenti, come ad esempio le insinuazioni fatte ai danni dei membri del nuovo movimento religioso Aum Shinrikyō, accusati di essere posseduti.
In medicina, il kitsunetsuki è considerata una sindrome culturale unica della cultura giapponese. Coloro che soffrono di questa malattia (i più colpiti sono uomini con poca cultura, religiosi e donne) credono di essere posseduti dallo spirito di una volpe. I sintomi includono ossessione per riso e fagioli rossi dolci, apatia, irrequietezza e avversione al contatto visivo. In conclusione possiamo affermare che il kitsunetsuki è simile alla licantropia clinica, pur distinguendosi da essa per alcuni aspetti.
Hoshi-no-tama e kitsunebi. Nelle rappresentazioni artistiche le Kitsune vengono spesso raffigurate a fianco di punti luminosi di forma sferica conosciuti come hoshi no tama, che letteralmente significa “sfere stellate” e che, in alcuni racconti, vengono descritti come globi incandescenti, e in questo caso prendono il nome di kitsunebi, “fuoco di volpe”. Talvolta vengono rappresentate anche sotto forma di perle o gioielli dotati di poteri magici.
Questi oggetti sono uno dei simboli peculiari associati alla figura del dio Inari, cosicché le rappresentazioni delle sacre volpi di Inari senza le proprie hoshi no tama sono assai rare.
Le Kitsune, quando assumono la loro forma naturale, trasportano la propria sfera tenendola tra le fauci o trasportandola sulla coda.
Una convinzione popolare narra che, quando una Kitsune cambia forma, una parte del suo potere magico si trasferisce all’interno della hoshi no tama.
Un’altra tradizione vuole che la perla rappresenti l’anima della Kitsune, perciò, se la volpe dovesse rimanere troppo tempo separata da questa, finirebbe per morire.
È possibile sottrarre la sfera alla Kitsune, in modo da chiedere delle ricompense in cambio della restituzione. Un racconto del XII secolo narra della disavventura di una volpe che si vede sottrarre la hoshi no tama da un uomo:
«”Maledizione!” sbottò la volpe. “Restituiscimi la mia sfera!” Ma l’uomo la ignorava finché ella non cominciò a piangere. “Va bene — disse — hai rubato la mia sfera, ma non hai idea di cosa farne. Non ne trarrai nulla di buono per te. Per me invece, è una perdita terribile. Io ti dico che, se tu non me la dovessi restituire, sarò tuo eterno nemico. Se invece me la restituissi, ti starò a fianco come un dio protettore.”»
Il racconto si conclude con l’uomo che, attaccato da una banda di rapinatori armati, viene salvato dall’intervento della volpe, alla quale in cambio restituisce la sfera magica.
Kitsune no Yomeiri. Quando piove mentre splende il sole, la gente dice “Kitsune no Yomeiri”, che significa matrimonio di Kitsune, in riferimento a una leggenda che descrive una cerimonia matrimoniale tra due kitsune avvenuta in tali condizioni climatiche.
Si dice che, guardando attentamente, si possa vedere la processione nuziale della sposa Kitsune in lontananza. Occorre tuttavia stare molto attenti poichè, anche se l’evento è considerato di buon auspicio, nessuno è autorizzato ad assistere al matrimonio, e se lo volpi dovessero accorgersene si scatenerebbe la vendetta della Kitsune, come descritto nel film Sogni di Akira Kurosawa.
Volpi a nord-est. Secondo i credi tramandati dalla geomanzia cinese (feng shui), il potere delle volpi sul male è tale che un amuleto o una semplice statua raffigurante una Kitsune è sufficiente ad allontanare il kimon.
Kimon è un termine che identifica quell’energia responsabile di indurre le persone in tentazione, liberamente traducibile in “cancello dei demoni a nord-est” o “creature che giungono da nord-est”. Nel pensiero cinese, il quartiere nord-est è considerato particolarmente infausto: è il luogo in cui “i demoni si riuniscono ed entrano”. Kimon generalmente significa una direzione minacciosa o direzione tabù.
Secondo le credenze popolari cinesi la direzione nord-est è considerata particolarmente infausta e tale convinzione ha finito per influenzare le tradizioni giapponesi, dove la volpe è considerata un potente alleato per scongiurare influenze maligne e le statue della volpe sono spesso collocate a nordest per sorvegliare l’influenza demoniaca.
Molti Jinja dedicai ad Inari hanno statue di Kitsune poste a nord-est, in modo che interpretino il ruolo di guardiano avente il compito di impedire l’ingresso dell’energia demoniaca nel mondo terreno. Di solito vi sono anche due volpi che proteggono l’ingresso all’edificio principale dei Santuari di Inari, una a sinistra e una a destra del cancello, come il famoso Santuario di Kyoto, Fushimi Inari Taisha.
In alcune sette buddista-taoiste in Giappone, il ruolo di scacciare il male “kimon” è interpretato dalla scimmia: il termine giapponese per scimmia ( 猿, pronunciato saru) è un omonimo per la parola giapponese “espellere” ( 去る , anch’esso pronunciato saru).
Anche se la tradizione della magia della volpe fu introdotta in Giappone dalla Cina e dalla Corea, ebbe origine in India. Nondimeno, i poteri soprannaturali della volpe non sono esclusivi dell’Asia, poiché la mitologia della volpe esiste – in modo abbastanza indipendente – anche in molte nazioni non asiatiche.
Infestazioni. Le kitsune spesso adottano comportamenti tipici dei trickster (traducibile in “ingannatore”), ovvero esseri spirituali abili nell’imbroglio e caratterizzati da una condotta amorale, capaci di compiere azioni che variano dalla semplice malizia fino alla vera e propria malevolenza.
I racconti narrano di Kitsune che truffano samurai eccessivamente orgogliosi, mercanti avidi o persone vanitose, mentre quelle più crudeli abusano di contadini e poveri commercianti o di devoti monaci buddhisti.
Per esempio, si pensa che le Kitsune usino i kitsunebi a mo’ di fuoco fatuo nel tentativo di far smarrire la strada ai viaggiatori. Altri trucchi utilizzati dalle Kitsune ingannatrici includono sedurre la vittima, confonderla con illusioni e visioni, il furto di cibo, l’umiliazione dei vanagloriosi e la vendetta. Le loro vittime sono di solito uomini; le donne invece vengono possedute.
Un gioco tradizionale giapponese chiamato kitsune-ken (letteralmente “pugno della volpe”) fa riferimento a tali poteri, dando una chiara idea di come fossero visti e temuti dalle persone del tempo. Il gioco è simile alla morra cinese, ma le tre posizioni delle mani sono “volpe”, “cacciatore” e “capo villaggio”. Il “capo villaggio” batte il “cacciatore”, perché lo supera di grado; il “cacciatore” batte la “volpe”, poiché in grado di sparare col suo fucile; la “volpe” batte il “capo villaggio”, stregandolo.
Queste rappresentazioni ambigue, unite alla reputazione di esseri vendicativi, motivarono le persone a cercare di scoprire le cause del comportamento problematico delle volpi.
Per esempio, Toyotomi Hideyoshi, daimyō che unificò il Giappone alla fine del XVI secolo, scrisse una lettera al dio Inari.
«A Inari Daimyōjin,
Mio signore, ho il dovere di informarla che una delle volpi sotto la sua giurisdizione ha stregato una delle mie serve, causando a lei e alle altre una grande quantità di problemi. Devo chiederle di fare minuziose indagini sulla questione, e cercare di scoprire le ragioni del comportamento del soggetto, mettendomene a conoscenza appena possibile.
Se scopre che la volpe non ha ragioni sufficienti per motivare il proprio comportamento, la prego di fermarla e di punirla. Se esita nell’intervenire in questa vicenda, io darò ordine di sterminare tutte le volpi del Paese. Per qualsiasi altra questione relativa o in riferimento a quanto accaduto, può consultare il sommo sacerdote di Yoshida.»
Le Kitsune sono note per mantenere ciò che promettono e si sforzano di restituire qualsiasi favore; tuttavia può capitare che esse si stabiliscano nell’abitazione di una persona o di una famiglia, provocando guai di ogni sorta.
In un racconto del XII secolo, solo la minaccia del proprietario dell’abitazione di sterminarle, le volpi si convincono ad andarsene. La volpe capofamiglia, tuttavia, appare nei sogni dell’uomo:
«Mio padre visse qui prima di me, signore, e ora io ho molti figli e nipoti. Compiono molte monellerie, me ne dispiaccio, e cerco sempre di fermarli, ma non mi prestano attenzione. E adesso, signore, lei è comprensibilmente stanco di noi. Ma io voglio solo che lei sappia, signore, quanto mi dispiaccia che questa sia la nostra ultima notte di vita. Non vuole perdonarci, solo per questa volta? Se mai creeremo altri problemi, poi, naturalmente, lei agirà come meglio crede. Ma i giovani, signore, sono sicuro che capiranno quando spiegherò loro perché lei è così arrabbiato. Faremo tutto il possibile per proteggerla da ora in poi, solo se ci perdona, e ci assicureremo di farle sapere quando qualcosa di buono sta per accadere!»
Alcune Kitsune usano la magia a beneficio dei loro compagni o padroni finché questi le trattano con rispetto. Essendo yōkai, tuttavia, le Kitsune non condividono la moralità umana, e può capitare che una volpe stabilitasi in una casa, per esempio, vi porti all’interno denaro e altri oggetti rubati a vicini; come conseguenza, le famiglie in cui si pensa alloggi una Kitsune sono trattate con diffidenza e sospetto.
Tra i più sospettati di ospitare una Kitsune vi erano i samurai, ma in questo caso le volpi erano classificate come zenko e la possibilità di usufruire dei loro poteri magici era considerato un segno di prestigio.
Le case abbandonate erano generalmente considerate luogo di ritrovo per le Kitsune. Un racconto del XII secolo narra di un ministro che decise di trasferirsi in un vecchio palazzo, trovandovi all’interno una famiglia di volpi che vi abitava: inizialmente esse provarono a spaventarlo, poi sostennero che la casa apparteneva loro da molti anni. L’uomo però non cedette, e le volpi furono costrette ad andarsene e a trasferirsi in un terreno nelle vicinanze.
Etimologia Nome. Kitsune è la parola giapponese per “volpe”. Il termine kitsu in passato veniva usato per indicare il verso della volpe, diventando successivamente la parola che identifica l’animale stesso. La parola ne è traducibile in “stato d’animo affettuoso”. Oggi il termine kitsu è caduto in disuso; nel giapponese moderno è stato infatti sostituito da “kon kon” o “gon gon”. In giapponese classico kitsu-ne significa “torna e dorme”, mentre la variante ki-tsune significa “torna sempre”.
Uno dei più antichi racconti sui miti delle kitsune fornisce un’etimologia popolare del termine, in seguito smentita. A differenza di molti racconti di kitsune nei quali esse si trasformano in donne, questo non termina tragicamente.
«Ono, un abitante di Mino (come narra un’antica leggenda giapponese del 545 d.C.), impiegò molto tempo per trovare il suo ideale di bellezza femminile, ma una sera trovò finalmente la donna perfetta in una vasta palude, decidendo quindi di sposarla. Contemporaneamente alla nascita del primo figlio, anche il cane di Ono ebbe un cucciolo, che crescendo divenne sempre più ostile verso la donna delle brughiere. Ella pregò il marito di ucciderlo, ma Ono si rifiutò. Un giorno il cane attaccò la donna terrorizzandola tanto che lei tornò alla sua originale forma di volpe e scappò via. “Sarai anche una volpe” diceva poi Ono “ma sei pur sempre la madre dei miei figli ed io ti amo. Torna quando ti pare; sarai sempre la benvenuta”. Così ogni sera ella tornava con sembianze umane per dormire tra le braccia di Ono, ma tutte le mattine fuggiva via con le sembianze di volpe». (Sunto del racconto Torna e dorme scritto dal monaco Kyoukai nel tardo VIII secolo o all’inizio del IX secolo).
L’origine dei miti sulla kitsune sono attualmente oggetto di dibattito. Secondo alcuni studiosi le caratteristiche comuni presenti in ognuna di queste figure sarebbero da ricondurre a opere indiane quali Hitopadesa (XII secolo) e Pañcatantra (III secolo a.C.), le quali a loro volta avrebbero tratto ispirazione dalle Favole di Esopo (Grecia, VI secolo a.C.), che si diffusero successivamente in Cina, in Corea e infine in Giappone. Molte di queste prime storie sono contenute nel Konjaku Monogatarishū, una raccolta di narrazioni cinesi, indiane e giapponesi dell’XI secolo.
Matsuri. La figura della kitsune viene celebrata nei matsuri, i festival tradizionali giapponesi.
Il quarto sabato di settembre, per esempio, gli abitanti di Hida-Furukawa (prefettura di Gifu) sfilano per le strade della città travestiti da volpi per celebrare il Kitsunebi Matsuri, il festival del fuoco della volpe; essi si recano presso il santuario di Okura Inari e mettono in scena un matrimonio. Tale cerimonia ha lo scopo di propiziare la buona sorte e termina con un falò presso il santuario. Un festival simile si svolge nel mese di luglio a Okaya, nella prefettura di Nagano.
A Kita (Tokyo) si svolge, invece, la parata delle volpi di Ōji durante la quale i locali, durante la vigilia di Capodanno, sfilano per le strade travestiti da volpe prima di raggiungere il santuario di Ōji Inari. Questa cerimonia trae origine da una leggenda secondo la quale le volpi di tutto il Giappone si riunirono sotto un grande albero e, travestite da esseri umani, si recarono allo stesso modo al santuario per celebrare l’ultimo giorno dell’anno.