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Shinto. La Via dei Kami

Lo Shintoismo è una religione autoctona e originaria Giappone, tanto da non essere praticata in nessun altro paese del mondo.

Le sue origini sono antichissime: risale, probabilmente, ad epoche quasi preistoriche, quando il Giappone era ancora una terra abitata da contadini e coltivatori semi-nomadi.

Il termine Shintoismo deriva dalla parola shin-to, che è la pronuncia giapponese del cinese Shen-Tao.
Shen è un pittogramma cinese che indica un’entità numinosa, misteriosa, lo spirito, la divinità, e in giapponese viene tradotto con la parola Kami. Tao è un pittogramma cinese che indica la Via, e viene tradotto in giapponese con michi. Da qui l’espressione  kami-no-michi , la Via dei kami, che si può dire sia il vero nome dello Shintoismo.

Il termine shin-to appare per la prima volta nel testo di storia Nihon Shoki (720 d.C.). Si riferisce all’osservanza religiosa relativa al culto delle divinità e dei santuari, in contrapposizione al termine  Butsu-do che indica invece la Via del Buddha diffusa in Cina. Come dire: la Via Giapponese (alla Felicità) è quella dei Kami, non quella del Buddha.

Solo nel tardo XII secolo il termine viene usato per indicare il corpo della dottrina religiosa giapponese.

Lo Shinto è, dunque, la Via dei Kami, dove Kami viene solitamente tradotto con déi.

Tuttavia, tradurre Kami con dio è una forzatura non da poco: la parola giapponese significa letteralmente “superiore”, nel senso di forza numinosa che trascende la materialità.

Un dio è Kami, uno spirito è Kami, un antenato è Kami. Ma anche un albero, una pietra, una montagna: ogni cosa, nella mentalità animista, può essere Kami. Persino gli esseri umani, in quanto possiedono un’anima, detta reikon, sono dei potenziali Kami.

In Giappone si dice che ci sono Yaoyorozu-no-kami, ossia otto-milioni-di-kami; questo numero porta con sé il concetto di infinito. Giusto per dare un’idea di quanto possa essere vasto il pantheon shintoista.

Un teologo occidentale chiese un giorno ad un sacerdote giapponese quale fosse la teologia dello shintoismo. Il giapponese fece un sorrisetto imbarazzato: «Noi non abbiamo teologia. Noi danziamo».

Questo aneddoto, riferito da Joseph Campbell, spiega in parte la mentalità animistica: la religione non ha nulla a che vedere con la razionalità. Il divino non va spiegato, va sperimentato.

Lo Shinto è la religione nazionale del  Giappone, definita e organizzata a livello di Stato e di Corte Imperiale. Ma è anche una religione  etnica: solo i giapponesi sono shintoisti, e solo loro possono esserlo.

In linea di massima, lo Shinto rappresenta, nella struttura sociale, un collante che rende omogenei gli atteggiamenti psicologici degli individui, condividendo determinati valori.

Tra i valori più acclamati, troviamo il rispetto per gli antenati all’interno di forti  organizzazioni famigliari e di clan, l’unità fra religione e nazione, i culti e le feste locali e, non ultimo, la ricerca del sacro nella natura.

L’insieme di pratiche, credenze e atteggiamenti sono strutturati, ma non rigidamente come nelle religioni occidentali. Inoltre, essendo un culto spontaneo, è da sempre ben radicato nelle varie comunità locali, con le loro tradizioni peculiari.

 

I Testi Sacri dello Shinto

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Lo Shinto non prevede precetti morali ferrei e precisi destinati ai fedeli, come accade con la maggior parte delle altre religioni. Si basa, invece, su un sistema di fede animista, che crede negli spiriti.

La fonte principale dello Shinto è costituita da credenze e pratiche popolari indigene, tramandate oralmente e da raccolte di storie scritte redatte da cronisti di professione chiamati Kataribe.

Nel VII secolo, davanti all’avanzata del Buddhismo, la classe dominante del Giappone promosse una raccolta scritta dei miti e delle tradizioni del popolo. Ciò che conosciamo della tradizione Shintoista si trova, dunque, nella letteratura e nei documenti scritti per volontà imperiale.

Le scritture principali sono il Kojiki e il Niohongi.

Il Kokiji, registro delle cose antiche”, conosciuto anche come Furukotofumi, fu scritto in giapponese intorno al 712, 307 anni dopo l’introduzione della scrittura cinese, su richiesta dell’imperatore Temmu.  Fu consegnato dal nobile Ō-no Yasumaro, che ne scrisse personalmente l’introduzione, alla nipote, l’imperatrice Genmyo (708-714).

Per mettere per iscritto le storie che contiene, tramandate oralmente per secoli, ci si affidò, sembra, alle memorie di una certa Hieda no Are, forse una danzatrice sacra dei kagura (rappresentazioni drammatiche di argomento mitologico).

Il Kojiki tratta del regno degli dèi e della creazione del Giappone, spiega le genealogie divine e narra le leggende del Ciclo d’Izumo.

Il punto centrale è il racconto di come Jinmu-Tennō, discendente di Amaterasu, divenne il primo imperatore del Giappone. Dopodiché, il Kojiki si dilunga sulle imprese dei sovrani successivi, arrivando fino al VII secolo.

Il testo è complicato, ridondante, di difficile interpretazione. Insomma, è un testo piuttosto rozzo, ma splendido. Del resto  la letteratura giapponese raggiunse il culmine della raffinatezza solo intorno all’anno 1000, con quel capolavoro universale che è il Genji Monogatari, il diluviale romanzo di Murasaki Shikibu.

L’altro grande testo mitologico giapponese è il Nihongi (Nikong o Nihon Shoki), “cronache del Giappone”. Fu scritto in cinese verso il 720, sotto la supervisione del principe Toneri, figlio dell’imperatore Temmu, con l’assistenza dello storiografo Ō-No-Yasumaro.

Inquinato da pesanti influssi cinesi, il Nihongi riporta gli stessi miti del Nihongi, ma con alcune interessanti varianti.

Vi sono poi altri testi d’importanza secondaria, come ad esempio i Norito (parole pronunciate): una raccolta poetica di 27 discorsi a carattere magico, pronunciati in pubblico dai membri della famiglia Nakatomi nell’epoca di Nara (710-784 d.C.). Lo stile è serio e maestoso, i periodi sono lunghi con molte metafore e ripetizioni. 

Storicamente, il clan Nakatomi condivideva con il clan Inbe il monopolio delle cose riguardanti lo shinto, avendo svolto per lungo tempo servizi religiosi shintoisti per la corte imperiale giapponese.

Tuttavia, all’inizio del periodo Heian, il clan Fujiwara, di cui il clan Nakatomi è un ramo, conquistò il potere politico. Questo rafforzò il clan Nakatomi indebolendo il clan Inbe e causando conflitti tra i due.

Fu così che Inbe no Hironari, la cui data di nascita e morte sono sconosciute, scrisse il Kogoshui, per chiarire la storia e legittimare i diritti del suo clan, nonché per sostenere l’ingiustizia del clan Nakatomi.  

Lo presentò all’Imperatore Heizei nell’807. Nel Kogoshui si riprendono gli antichi miti e viene legittimata l’origine divina della casta sacerdotale.

Un altro testo molto importante è lo Yengishiki, una raccolta di rituali shintoisti: il rituale per il raccolto, il rituale per gli spiriti del male, il rituale di purificazione, ed altri ancora.

Non possiamo dimenticare il Man’yōshūCollezione delle 10.000 Foglie. Si tratta di una raccolta di preghiere rituali, compilata molto probabilmente intorno alla seconda metà dell’VIII secolo, durante il periodo Nara. E’ formato da 4496 componimenti scritti tra la seconda metà del V e la metà dell’VIII secolo.

I circa cinquecento autori del Man’yōshū (di cui settanta sono donne), appartengono a tutti i ceti sociali: membri della famiglia imperiale, contadini, soldati, artigiani e monaci. Gli autori più famosi del Man’yōshū sono: Kakinomoto no Hitomaro, Yamabe no Akahito, Yamanoue no Okura, Ōtomo no Tabito e Ōtomo no Yakamochi. Tra le donne troviamo: la principessa Nukata, Ōtomo no Sakanoue no Iratsume, Kasa no Iratsume.

Ci sono poi altri testi, come lo Shintoshu, che spiega le origini delle divinità giapponesi da un punto di vista buddista, e lo Hotsuma Tsutae, che riporta una versione sostanzialmente diversa della mitologia nipponica.

 

Shintoisti Moderni

shintoL’interesse dello Shinto è concentrato esclusivamente sul Giappone. Nei miti non si parla di una creazione dell’Universo, ma piuttosto della creazione del solo Giappone. Dunque, a differenza di altre mitologie, non si può parlare di Cosmogonia.

Inoltre, la più importante conseguenza della mitologia giapponese è quella di spiegare le origini divine della Famiglia Imperiale.

La mentalità giapponese è sempre stata etnocentrica. Nient’altro può spiegare gli eccessi di fredda crudeltà di cui furono capaci i Giapponesi, nonostante siano uno dei popoli più cortesi e gentili del mondo.

Il fanatismo estremo dei kamikaze, i suicidi rituali di intere scolaresche, la dedizione di soldati che, decenni dopo la fine della guerra, ancora rifiutavano di lasciare le loro postazioni senza un ordine ufficiale da parte dei loro superiori.

Quando, alla fine della Guerra del Pacifico, il 15 agosto del 1945, il Giappone accettò la resa incondizionata, gli Americani pretesero che l’imperatore Hirohito dichiarasse pubblicamente di non essere una divinità.

Quando i Giapponesi, poco avvezzi alla logica della teologia occidentale, ascoltarono alla radio lo storico comunicato, conclusero che Hirohito doveva davvero essere un dio, perché solo un dio aveva l’autorità di fare una simile dichiarazione.

A titolo esplicativo, questi sono i punti essenziali dello Shintoismo di Stato, che il Ministero dell’Istruzione Giapponese diffuse nel 1937, ricavati dal Kokutai no hongi:

Gli imperatori del Giappone discendono dalla dea del sole Amaterasu-ō-mi-kami.

Il Giappone è stato sempre governato dalla stessa dinastia.

Il Giappone è un paese unico al mondo, senza paragoni.

Tutti gli imperatori del Giappone e la dea Amaterasu-ō-mi-kami formano una sola cosa.

La dea Amaterasu risiede nello Specchio del tempio di Ise.

I tre simboli del potere imperiale (lo Specchio, la Spada e la Collana) furono consegnati agli imperatori dalla dea Amaterasu.

L’azione di governare il Paese è opera divina.

L’imperatore è una divinità visibile.

Gli imperatori del Giappone sono diversi dai sovrani delle altre nazioni, avendo un’origine divina.

L’atto di governare il Paese e quello di pregare gli dèi sono la stessa cosa.

Gli imperatori offrono preghiere all’antenata Amaterasu per il benessere del popolo.

Le regioni non sottomesse all’imperatore sono infelici. 

L’imperatore e il popolo formano una sola cosa.

La lealtà verso l’imperatore è la base della morale giapponese.

 

Oggi i Giapponesi hanno indirizzato la loro dedizione alla nazione verso il reddito interno lordo. Hanno sublimato il feudalesimo nelle multinazionali e hanno adattato il codice dei samurai alle esigenze dell’economia.

Sono sospesi tra tradizione e modernità e, se da un lato sognano incubi robotici, dall’altro non hanno mai rinunciato veramente alla loro mitologia.

Il tennō, che è l’ultimo imperatore della Terra, continua ad essere, per tutti i Giapponesi, il legittimo e diretto discendente della dea del sole Amaterasu-ō-mi-kami.

 

Sincretismo Culturale

Nello Shintoismo non vi sono comandamenti né regole che prescrivono che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, tanto meno è prescritta esclusività di culto o di credo.

Ciò ha consentito ad altre forme religiose, in particolare al Buddhismo, di trovare spazio e fedeli in terra giapponese.

Tra l’altro, lo Shintoismo e Buddismo non si elidono a vicenda ma, al contrario, la grande maggioranza dei giapponesi è shintoista e buddhista allo stesso tempo. Addirittura, i Santuari Shinto e Templi Buddhisti spesso condividono la stessa area sacra.

Ciò rappresenta quasi un unicum in un mondo che da sempre tende all’esclusivismo, nel quale il fanatismo e l’intolleranza religiosa dilagano, portandosi dietro decine di piccoli conflitti, più o meno estesi sul territorio, nonché centinaia di migliaia di vittime.

 Ad ogni modo, esistono sostanziali differenze fra le due fedi.

A differenza del Buddhismo, le cui divinità sono generalmente senza sesso o maschili, la tradizione Shinto ha venerato a lungo l’elemento femminile. Basti pensare che l’Imperatore del Giappone rivendica una dignità diretta dalla Dea del Sole Amaterasu.

Le divinità Shinto sono chiamate Kami, (ma anche Shin, Jin, Sama, Tenjin, Gongen e Myojin) per distinguerle dalle loro controparti Buddhiste che invece sono note come Butsu o Nyoray – che significano Buddha – e Bosatsu che indica i Bodhisattva – manifestazioni del Buddha – oppure Ten – che significa Deva – e Myo-o che indica qualcosa tipo “Re Luminoso”, e si riferisce sempre a manifestazioni del Buddha.

Anche i luoghi di culto sono facilmente distinguibili. Anzitutto, solo i luoghi di culto buddhisti sono definiti templi e di solito assumono il suffisso –ji nel nome.

I luoghi di culto shintoisti sono definiti santuari e sono detti Jinja.

Alcuni elementi architettonici sono distintivi: ad esempio la pagoda è un’architettura di influenza cinese che troviamo nei Templi buddhisti.

I Santuari shinto, invece, mantengono un’architettura semplice e naturale, ben poco decorata e assolutamente priva di sfarzi.

Il Torii invece è un elemento prettamente shintoista, che nei Templi buddhisti può essere sostituito da un portale molto più sfarzoso che assume nel nome il suffisso -mon, che significa “porta”.

Purtroppo neanche il Giappone moderno sfugge ad una spiritualità puramente materialista, così sia lo Shinto che il Buddhismo hanno assunto l’aria di “benefici mondani”, essendo principalmente coinvolti in petizioni e preghiere per i profitti aziendali, per la sicurezza della famiglia, per il successo degli esami di ammissione alla scuola, per la nascita indolore e senza complicazioni dei bambini, ed altri benefici concreti di cui godere in questa vita.

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