Ofiuco e il Giardino dell’Eden
Sotto il Segno dell’Ariete
La parola equinozio deriva dal latino aequus nox, che significa letteralmente “notte uguale”, indicando il perfetto equilibrio tra il giorno e la notte.
Nel ciclo zodiacale gli equinozi sono due e cadono rispettivamente nei Segni di Ariete e Bilancia, nei mesi marzo e ottobre. Se per la Bilancia il simbolismo di equità non ha bisogno di essere spiegato, per l’Ariete il discorso si fa piuttosto arduo.
Astronomicamente, il Sole sale sopra l’equatore celeste, la zona astronomica chiamata nelle antiche cosmologie “terra emersa”, contrapposta alle “acque inferiori”, cioè la zona al di sotto di tale fascia. In questo modo, il Sole passa da Nord a Sud nel cerchio zodiacale, segnando il nuovo inizio nel segno dell’Ariete, sotto l’egida di Marte.
Prima dell’Equinozio di Primavera, le ore buie sono maggiori rispetto a quelle diurne. Viceversa, dopo l’Equinozio, le ore di luce aumentano sempre di più fino all’Equinozio d’Autunno, quando il processo si inverte. Con l’aumentare delle ore di luce, la natura si risveglia, i fiori sbocciano, gli uccelli migranti ritornano, gli animali si accoppiano. Non c’è da meravigliarsi se questa data sia stata associata, presso varie culture, alla fertilità e alla resurrezione.
Il guerriero della luce sconfigge le tenebre e diventa il salvatore, colui che sacrifica se stesso per salvare gli altri. Nell’attuale cultura europea questo guerriero salvatore è Gesù. In ebraico il Nome Yeshua deriva da יָשַׁע yasha, un verbo che significa, appunto, salvare, liberare, dal male naturalmente.
Colui che libera dal male è il capro espiatorio, il capricorno, un capretto nato a dicembre con il Solstizio d’Inverno, che viene sacrificato con l’Equinozio di Primavera, quando è diventato un giovane Ariete. Dopo il sacrificio, di lui non resta che un vello in grado di proteggere l’intero popolo: il Segno dell’Ariete.
Il Vello d’Oro
Notoriamente, il mito associato al Segno dell’Ariete è quello del Vello d’Oro o Toson d’Oro. Si tratta del manto di un ariete capace di volare, che Ermes, messaggero degli Dèi, donò a Nefele, madre dei Gemelli Elle e Frisso, rispettivamente femmina e maschio, figli di Atamante. Quest’ultimo, però, aveva lasciato la loro madre Nefele per sposare Ino, la quale odiava i due gemelli e desiderava ucciderli per far sì che fosse suo figlio il successore al trono di Atamante.
Così Ino cominciò a bruciare il grano per sabotare il raccolto e quando Atamante chiese aiuto all’Oracolo di Delo, Ino corruppe i messaggeri affinché rispondessero che, per salvare il raccolto, Frisso doveva essere sacrificato.
A malincuore, Atamante portò suo figlio in cima al Monte Lafisto, che sovrastava il suo palazzo a Orcomeno, ed era sul punto di sacrificare Frisso a Zeus quando dal cielo giunse un ariete alato dal vello d’oro che prese in groppa Frisso e la sorella Elle.
La madre dei due Gemelli aveva chiesto aiuto a Ermes, il quale aveva mandato l’ariete per salvarli. Volarono via in direzione est verso la Colchide, sulla sponda orientale del Mar Nero, sotto le Montagne del Caucaso (nella Georgia odierna). Lungo il percorso Elle non riuscì a mantenere la presa e cadde nel canale fra l’Europa e l’Asia, i Dardanelli, che in suo ricordo i Greci chiamarono Ellesponto.
Una volta raggiunta la Colchide, Frisso sacrificò l’ariete in segno di gratitudine e regalò il suo vello d’oro al Re della Colchide, Eeta, che, in cambio, gli concesse la mano di sua figlia Calciope.
Re Eeta custodì la reliquia in un bosco, ponendovi a guardia un drago. Qui rimase fino all’arrivo di Giasone che, con l’aiuto della pozione magica di Medea, fece addormentare il drago e trafugò il Vello. Da allora, del Vello, non se ne è saputo più nulla.
Del Segno dell’Ariete, invece, sappiamo che è governato da Marte che discende da Giove, governatore del Segno dei Pesci che lo precede ma che rientra nel ternario del Solstizio d’Inverno. Accanto all’Ariete, a seguire, troviamo Venere che governa il segno del Toro. Dall’unione di Marte-Ariete e Venere-Toro nascono due Gemelli.
Roma

Nell’antica Roma l’anno cominciava in primavera, nel mese di marzo, sacro a Marte, padre dei due gemelli Romolo e Remo, fondatori della città.
Così, ogni anno, a Roma, il 14 o 15 marzo, veniva portato in processione un uomo coperto di pelli di capra, colpito con lunghe verghe, chiamato Mamurio Veturio. Egli rappresentava la personificazione dell’anno vecchio (Veturio da vetus vecchio), che veniva scacciato alle Idi di Marzo per far posto al nuovo anno.
Mamurio Veturio è un personaggio semi-mitico, un fabbro per la precisione, probabilmente di origine sabina ed appartenente all’antichissima Gens Veturia.
Mamurio ci ricorda Efesto, il fabbro deforme nel fisico ma degno rivale di Marte per l’Amore di Afrodite.
Secondo la tradizione Numa Pompilio ricevette dal dio Marte l’Ancile, uno scudo sacro molto prezioso, perché costituiva il pegno dell’eterna invincibilità di Roma, almeno finché fosse rimasto presso l’Urbe.
Numa, per impedire che potesse essere trafugato, chiamò il fabbro Mamurio Veturio affinché forgiasse undici copie identiche. Una volta conclusa la sua opera, Mamurio consegnò tutti e dodici gli scudi a Numa Pompilio, che a sua volta li affidò in custodia ad un collegio di altrettanti sacerdoti scelti fra i membri delle gentes originarie, le più antiche e nobili famiglie di Roma.
Venne così istituito il prestigioso collegio dei Salii, che nei mesi di marzo e di ottobre, sacri al dio Marte, portavano solennemente in processione i dodici scudi, saltando (da cui il nome, dal verbo latino salire) ed intonando un canto particolare, il Carmen Saliare, del quale ci sono pervenuti alcuni frammenti.
Fu così che divenne impossibile ai nemici di Roma sottrarre l’ancile autentico, che divenne uno dei sette pegni del comando (pignora imperii) di Roma:
«Ci furono sette garanzie a tenere il potere a Roma: l’ago della Madre degli Dèi, la quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il palladio, gli ancilia». (Maurus Servius Honoratus In Vergilii carmina comentarii)
Ma cos’è l’ancile? E’ descritto come uno scudo in bronzo, di forma ovale con due incavi laterali. Per alcuni, la parola ancile deriva dal greco ἀγκύλος, “curvo”. Secondo Ovidio:
«si chiama ancile quello che è reciso da ogni parte e se lo guardi tutti gli angoli svaniscono» (Ovidio, Fasti).
La tradizione narra che durante una pestilenza uno scudo bilobato scese dal cielo e l’epidemia subito cessò.
Dunque, l’ancile aveva virtù protettive e curative, non era esattamente uno scudo da guerra. A dirla tutta, neppure Marte è esattamente il dio della guerra. Il suo nome, Marte, deriva da una divinità maschile del pantheon etrusco: Maris.
Maris non è una divinità della guerra, ruolo che spetta a Laran. Dalle fonti epigrafiche e iconografiche, soprattutto trovate sugli specchi etruschi, Maris appare come un giovane e bellissimo ragazzo, connesso con la morte e la risurrezione, raffigurato con altre divinità. Spesso è un fanciullo sorretto da Menrva (Atena) oppure sulle ginocchia di Turan (Venere).
Il nome Maris appare tre volte nelle regioni interne del Fegato di Piacenza, in relazione a figure divine e mitologiche dell’ambito marziale e nel Disco di Magliano.

Nell’antica Grecia si narrava di un manufatto altrettanto prodigioso: l’egida di Zeus. Si diceva che fosse stata fabbricata da Efesto con la pelle di Amaltea, la capra nutrice di Zeus. Efesto ne fece uno scudo indistruttibile, resistente persino alla folgore, tanto che Zeus la usava per scatenare tempeste.
Pseudo-Apollodoro, nella Biblioteca, narra di un combattimento fittizio tra ragazze, Atena e la sua giovane compagna di giochi, la libica Pallade figlia di Tritone. Ci fu un attimo in cui Zeus temette che Atena potesse essere ferita, così le gettò addosso l’egida, descritta come una cosa che si poteva legare al petto. Purtroppo ciò andò a scapito della giovane Pallade che, distratta, non vide arrivare il fendente di Atena che, involontariamente, la uccise. Atena, in lutto per la perdita della sua compagna, creò un’immagine di Pallade con del legno e attorno al petto della statua legò l’egida.
Creò così un simulacro protettivo, il Palladio, che, secondo le credenze dell’antichità, aveva il potere di difendere un’intera città. E’ descritto come un simulacro ligneo, più precisamente uno xoanon, alto tre cubiti, che ritraeva Pallade Atena reggente una lancia nella mano destra e il petto coperto dall’egida.
Un’altro mito narra di un gigante di nome Pallante che ebbe la pessima idea di violentare Atena. La dea non solo lo uccise, ma lo scorticò e con la pelle caprina del gigante si fabbricò uno scudo che nessuna arma poteva infrangere. Dulcis in fundo, quando Perseo uccise Medusa decapitandola, Atena si appropriò della testa e la incastonò al centro dello scudo, che così divenne in grado di pietrificare i nemici anche se soltanto l’avessero guardata. Nell’Iliade, l’egida è usata anche da Apollo.

Queste due divinità, Atena e Apollo, condividono qualcosa di non esplicito. Per comprenderlo occorre recarsi a Delfi, proprio nel Santuario dedicato ad Apollo dove la profetavano le Pizie.
Poco distante da qui, sulle pendici della collina, sorge il Tempio di Atena Pronaia, cioè di Atena che sta davanti. Questo tempio era utilizzato come serpentario, cioè era utilizzato per allevare serpenti che, in seguito, erano trasferiti nel Tempio di Apollo.
Il nome Delfi riconduce ad un drago o serpente mitologico, di sesso femminile, chiamato Delphyne che significa “il grembo, il ventre, l’utero della terra”. Di questo drago si narra che morì durante un epico combattimento con Apollo, che in questo modo si impossessò dell’oracolo e diede alla sacerdotessa il nome di Pizia (Pitonessa).
La Colonna Serpentina a tre teste di serpente detta Τrikarenos Οphis o Tripode di Delfi, è una colonna greco-romana di bronzo, che oggi troviamo nell’Ippodromo di Costantinopoli, mentre quella che troviamo nel tempio di Delfi ne è una replica, eretta nel 2015.

Delfi era un centro abitato già in età micenea (XI-X secolo a.C.), quando si pensava fosse il centro del mondo, quindi era sede dell’onfalo o ombelico del mondo.
Le prime tracce di un culto legato alla dea Terra (Gea) e al serpente Pitone a partire dall’VIII secolo a.C.
Sotto il tempio di Atene Pronaia è stato trovato uno strato più antico, in cui sono stati rinvenuti circa 200 idoli di creta di una divinità dalle braccia spalancate, la prima Signora del luogo.
Atena e l’erede di una dea minoica, chiamata dai moderni Dea dei Serpenti, dal suo attributo più comune, adorata in origine sulle pendici delle montagne o colline.
In seguito, nel minoico tardo, dal XVI secolo in poi, la dea comparve nei palazzi dei principi Cretesi, diventando la protettrice dei Signori che vi dimoravano e dei loro regni. Nel XV secolo, quando i Micenei si insediarono a Creta e adottarono il culto della dea minoica, che si diffuse poi in Grecia.
Sull’acropoli ateniese, il tempio di Atena poliade sorgeva sulle rovine della reggia micenea. Qui, come altrove, il culto del re divenne il culto della polis.
Confrontando un passo dell’Iliade con uno dell’Odissea si nota che l’Eretteo e il tempio di Atena si identificano. Si narra che nel santuario abitasse un serpente a cui si facevano offerte di miele. Era chiamato Guardiano della Casa e la sua presenza, sebbene per Erodoto fosse puramente immaginaria, simboleggiava la presenza della dea.
I principi Micenei erano dediti alla guerra e alla pirateria ed è logico supporre che la loro dea domestica sia diventata anche la loro protettrice nella battaglia. Così Atena acquistò la fisionomia tradizionale della dea armata che appare al fianco degli Eroi nelle loro imprese più temerarie. Come dea guerriera, Atena ha esteso la sua tutela ai fabbri che forgiavano le armi, ai carpentieri costruttori dei carri.
Al centro c’è la Bellezza
Apollo è l’antico guerriero che sconfisse l’antico Drago, come San Giorgio, come l’arcangelo Michele. I nostri guerrieri non sono affatto uomini rudi e selvatici, ma hanno fattezze inaspettatamente graziose, amano l’arte e tutto ciò che è piacere ed armonia.
Nel mondo ellenico la bellezza apollinea era un attributo peculiare di Adone. Adone non era una divinità, bensì il frutto dell’amore incestuoso tra il re di Cipro e sua figlia Smirna.
Zeus trasformò Smirna in un albero di Mirra sopra una collina poco prima che il padre la uccidesse. Tuttavia il re, furibondo per aver consumato l’incesto a sua insaputa, sferzò ugualmente il fendente della sua spada contro l’albero e, dalla spaccatura, nacque Adone.
La mirra è una delle tre polveri strettamente correlate alle Sacre Scritture, insieme all’olibano e all’aloe, ma di più non si può dire poiché questa informazione ha carattere strettamente iniziatico. La stessa bellezza si riconduce alla Sesta Sefirah, Tifareth, che significa proprio bellezza e si trova al centro dell’Albero della Vita, così come Delfi era considerato il centro del mondo.
Adone era così bello che Afrodite lo volle per sé e lo nascose in una cesta che consegnò a Persefone, regina del regno dei morti, affinché allevasse il bambino. Quando Persefone sollevò il bambino dalla cesta ne rimase estasiata e lo volle per sé.
Adone divenne adulto e la contesa tra le due dee fu portata davanti a Zeus. Si decise che Adone avrebbe potuto passare la prima parte dell’anno con chi desiderava, la seconda con Persefone nell’oltretomba e la terza con Afrodite. In questo modo Adone divenne a tutti gli effetti l’amante conteso.
Afrodite usava le sue arti amorose e la cintura magica per indurre Adone a passare sempre più tempo con lei a scapito di Persefone. Ma la Signora dei Morti non si arrese di certo: si recò da Ares (Marte) e gli raccontò che Afrodite gli preferiva ormai Adone, un semplice mortale. Ares, in preda ad una incontenibile gelosia, si trasformò in cinghiale e caricò il bell’Adone, impegnato in una battuta di caccia sul monte Libano.
Altre versioni dicono che il cinghiale venne inviato da Apollo, geloso della bellezza di Adone, con l’aiuto della sorella gemella Artemide.
Ad ogni modo Adone morì: dal suo sangue sbocciarono gli anemoni rossi, mentre la sua anima precipitava nell’Oltretomba dove Persefone la attendeva.
Afrodite, in preda alla disperazione, si rivolse a Zeus che, impietosito dal dolore della dea, concesse nuovamente che Adone, ogni anno, trascorresse quattro mesi con Persefone nel regno dei morti, quattro con Afrodite e i restanti quattro con chi desiderasse.

Nell’antica Mesopotamia Adon, da cui deriva il nome di Adone, è l’appellativo con cui i fedeli si rivolgono alla divinità Tammuz. Adon significa Signore, in riferimento al mondo dei morti, dove Egli dimorava sei mesi all’anno negli inferi, proprio come il Sole quando si trova al di sotto dell’equatore celeste nei periodi autunno e inverno, mentre in primavera si festeggiava la sua risalita alla luce e il suo ricongiungimento alla dea Ishtar.
Nelle Sacre Scritture troviamo il Nome Adonay, che letteralmente significa “il mio Signore”, ma potrebbe essere anche un plurale con il significato di “Signori”. Lo troviamo spesso ad anticipare il Tetragramma Yahveh che, a volerlo tradurre, si otterrebbe qualcosa che ha il sapore dell’eternità in quanto significherebbe Lui era, oppure Lui è, oppure Lui sarà.
Il nome Tammuz è la forma ebraica passata nell’uso comune occidentale del nome del Dumuzi o Dumu-zi-abzu, che significa “figlio legittimo dell’Abzu” ovvero figlio dell’Abisso, poichè “ab” significa acqua e “zu” significa profondo. Abzu (Apsu in accadico), rappresenta le acque primordiali, l’Abisso, che nelle Scritture è תהום teom, l’abisso su cui aleggiava lo spirito di Elohim nei primi versi della Genesi.
Apsu è consorte di Tiāmat, madre di tutto il cosmo, dea primordiale degli oceani e delle acque salate, raffigurata nell’iconografia tradizionale come un serpente marino o un drago. Apsu, invece, sembra essere associato alle fonti di acqua dolce, sorgenti, fiumi, laghi e pozzi, anch’esse ritenute provenire da un unico oceano abissale sotterraneo.
Secondo la mitologia babilonese, la coppia Apsu-Tiamat genera due serpenti Laḫmu e Laḫamu, i quali a loro volta generano Anšar (dio dell’Alto) e Kišar (dio del Basso), che a loro volta generarono gli dei Anunnaki, ovvero gli dèi del cielo e della terra.
Nell’Enûma eliš, Tiāmat si oppose ad Apsû quando decise di sterminare le giovani divinità, avvisando il più potente tra loro, Enki/Ea, il quale riuscì ad addormentare Apsû per privarlo della corona e dello splendore divino (accadico: melammû; la radiosità terrificante che promana dalla figura divina mesopotamica) e, infine, lo uccide.
In seguito, le acque vengono distinte, separate in dolci e salate, superiori e inferiori: l’acqua dolce diventa dominio del dio Enki/Ea.
Il Nome Anki è formato da due sillabe, AN e KI, e viene interpretato come “Signore (en) della Terra (ki)”. Tuttavia, la sillaba “ki” che significa terra, potrebbe in realtà essere “kig”, una forma contratta del verbo “ki aĝ” che significa amare, il che coinciderebbe anche con il carattere benevolo di Enki. Il significato di Enki potrebbe quindi essere anche Signore della Benevolenza, oppure Signore amorevole.
Il nome Ea è di origine semitica e deriva dalla radice semitica occidentale *ḥyy la quale significa “vita”. La forma sarebbe un antico stato determinato col significato di “vita” ovvero il “Vivente”, “Colui che Vive”.
Alcune genealogie vedono Tammuz come figlio primogenito del dio dell’acqua e della sapienza Enki/Ea, ma altre versioni lo vedono come figlio del dio del sole Shamash. Ricordiamo che Shamash è, nelle Scritture, il nome del Sole.
Oggi, Tammuz è interpretato come un antico dio agrario, personificazione della vita lussureggiante della natura e della forza vitale e generatrice che si manifesta nella crescita delle piante e dei greggi. Secondo la mitologia, ogni anno Egli discendeva negli inferi e resuscitava a nuova vita col rinnovarsi della natura a primavera. Nella crescita e nel deperire della natura, gli antichi abitanti della Mesopotamia vedevano la resurrezione e la morte del “figlio”, il quale viene ad essere l’incarnazione del grano e della vegetazione in generale.
Di lui sappiamo che ogni anno aveva luogo una solenne cerimonia in suo onore, durante il quale i fedeli lamentavano la sua morte e invocavano il suo ritorno sulla terra dall’ade. Questa cerimonia aveva luogo nell’omonimo mese di Tammuz, che ritroviamo tutt’oggi nel calendario ebraico.
Il mese di Tammuz corrisponde al segno del Cancro, presieduto dall’astro lunare che, insieme al Segno del Leone, rappresenta l’apice dell’emiciclo solare positivo, che va da Ariete a Bilancia.
L’emiciclo negativo, invece, va da Scorpione a Pesci, e rappresenta il regno dei morti, che nella mitologia babilonese era detto Arallu, e di cui Tammuz era il Signore.
L’Arallu è anche definito ersetu (semplicemente terra) o bit miti (casa della morte). Si noti l’assonanza di questi termini con le parole della Bibbia ebraica eretz (terra) e Bait Mut (casa della morte). Benché localizzato nel sottosuolo, l’Arallu è descritto come una grande montagna (shad mātāti, montagna di tutte le terre).
Secondo gli antichi testi, la compagna di Tammuz è Geshtinanna, identificata variamente come sorella, moglie, madre. Il suo nome in lingua sumera significa “vite del cielo” o “vite celeste”, sebbene sia possibile che la parola geštin avesse anche il significato metaforico di “dolce” o “adorabile”.
La scrittura più antica di questo nome è Amageshtinanna, come attestato nei documenti di Lagash del primo periodo dinastico. Nella lingua sumera, il prefisso ama- significa madre, mentre il suffisso -anna è riconducibile ad AN (alto, cielo). Dunque è la Madre amabile dell’Alto cielo.
Un’ulteriore variante del nome era Ningeshtinanna, in cui il segno cuneiforme NIN, può essere tradotto come “signora”, “regina” o “padrona” quando usato nei nomi delle divinità femminili. Questo carattere cuneiforme corrisponde all’ideogramma da cui ha origine la lettera NUN, che anticamente rappresentava un serpente o drago marino e il cui nome, Nun, in aramaico, significa pesce.
Una forma più breve che comprende anche il segno NIN, è Ningeshtin (“signora della vite”) è nota dalle iscrizioni sui sigilli del periodo cassita.
In Emesal, un dialetto sumero, il nome era reso come Mutinanna. In questo caso il suffisso MUT ricorda la parola morte che abbiamo già incontrato in bit miti (casa della morte).
Le funzioni di Geshtinanna sono poco chiare: è nota come capo scriba degli inferi, che teneva nota dei morti che entravano nell’Arallu. Il mito Il sogno di Dumuzi la descrive come la “scriba esperta di tavolette” e “cantante esperta di canti” e sottolinea la sua saggezza.
Dunque, la dolce Madre delle altezze è la Signora dei Morti. Troviamo conferma di ciò dal fatto che Geshtinanna era moglie di Ningishzidda, anch’esso divinità dell’oltretomba, talvolta rappresentato come un serpente. Il suo nome viene tradotto da Thorkild Jacobsen (professore di assiriologia alla Harvard University, mancato nel 1993) come “signore dell’albero buono”.
Nella mitologia sumera Ningishzidda appare nel mito di Adapa come uno dei due guardiani, assieme a Dumuzi, del palazzo celeste di An. A Ningishzidda è associato il primo esempio conosciuto di simbolo costituito da serpenti avvolti intorno ad un bastone, che anticipa il caduceo di Ermes, il bastone di Asclepio e quello di Mosè.
Dumuzi è detto, negli inni sumeri che lo esaltano e compiangono la sua sorte, “quello della germinazione delle piante, quello del molto vino. Egli mangia il pane consacrato e beve l’acqua pura. Egli è un bambino e un giovane, è il grano che cade sotto la falce. Egli è colui che davvero è vivo, il germinatore di molte frutta, il figlio di vita, il pastore che ha abbandonato le pecore, il vero pastore, il saggio della terra, colui che sorge dall’oceano, il signore di vita, il risanatore, il medico”.

Nella mitologia classica il guaritore per eccellenza è il figlio di Apollo. Asclepio possiede la sua verga a cui è attorcigliato un serpente, tutt’oggi simbolo della medicina e della farmacologia. Pharmakos (greco φαρμακός) era il nome di un rituale largamente diffuso nelle città greche, simile a quello del capro espiatorio, che mirava ad ottenere una purificazione mediante l’espulsione dalla città di un individuo chiamato pharmakos (qualcosa come “il maledetto”). Ad Atene, durante le feste Targelie (greco θαργήλια), feste in onore di Apollo che si tenevano nel mese dei Gemelli, venivano scelte due persone di aspetto ripugnante, un uomo e una donna, adornate con collane di fichi e infine scacciate fuori dalle mura.
Si diceva che Asclepio fosse stato istruito nella medicina dal centauro Chirone che corrisponde al Segno del Sagittario.
Secondo il mito, Asclepio ricevette dalla dea Atena il dono di scambiare il proprio sangue con quello di Medusa, la Gorgone con i serpenti al posto dei capelli, la cui testa mozzata è incastonata nello scudo della Dea. Da allora il sangue che sgorgava dal fianco sinistro di Asclepio era velenoso e portatore di sventure, ma quello che sgorgava dal fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattia e persino di fare risorgere i morti.
Ciò fece arrabbiare Ade, poiché l’afflusso dei morti nell’oltretomba era diminuito drasticamente e Zeus decise di fulminarlo, per evitare che gli esseri umani diventassero immortali, come gli dèi.
Apollo si sentì oltraggiato per la morte del figlio e si vendicò uccidendo i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus. Per placare Apollo, Zeus tramutò Asclepio nella costellazione di Ofiuco, detta anche Serpentario, rendendolo una sorta di semi-dio. Il principale luogo di culto di Asclepio fu una grotta presso Tricca, dove profetava sotto il simbolo del serpente.
Ofiuco e il Giardino dell’Eden
La costellazione di Ofiuco è di poco a nord-ovest del Centro della Via Lattea, vicino alla costellazione del Sagittario.
Ofiuco è colui che domina il serpente oppure colui che porta il serpente: il suo corpo divide la costellazione del serpente in due parti, la Testa del Serpente e la Coda del Serpente, considerate un’unica costellazione.
Ofiuco è il Centro dell’Eden, proprio dove Dio pose l’Albero della Vita, affinché l’uomo non allungasse la mano e ne prendesse, diventando immortale.
Ofiuco è il Centro della Ruota dello Zodiaco, ma non ne fa parte. Di quel Centro immortale ci è dato solo un involucro, una corazza, uno scudo, una veste.
Così scopriamo che il morbido Vello dell’Ariete è una pelle di Serpente, quello stesso serpente che ha ingannato Eva nell’Eden. Nella sua pelle scorgiamo distintamente le squame del tempo che scorre, ma del Serpente non vi è traccia.
La Madre ha già mutato forma, ci è sfuggita, di nuovo.
Lei è la radice di ogni esistenza, da lei i mondi si sono manifestati, da lei sono sostenuti e da lei, infine, verranno riassorbiti. Lei è la Sposa del Dio, ma è anche il suo potere, mentre Egli, immobile, si limita a suscitare l’azione. Egli è l’Essere, l’immutabilità, il motore immobile.
Nell’induismo è ben nota l’iconografia della danza della Shakti fatta di fiamma, sul corpo disteso e immobile di Shiva. Shiva è colui che porta il tridente, come Poseidone, che con il tridente scuote la terra e ne fa zampillare le sorgenti.
Bisognerebbe comprendere cosa è andato storto quel Giorno della Genesi, e redimersi da quella punizione che ci priva dell’immortalità. Si dice che sia il Cantico dei Cantici, il superlativo canto d’amore, a contenere le indicazioni per rimediare all’errore commesso nella Genesi.
La sua mano sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia.
Così dice la dolce fanciulla del Cantico, descrivendo il suo amato che Ella brama più di ogni altra cosa. Questo loro abbraccio è il Segno dell’Amore che permea il Creato, la danza della vita e della morte. La sibillina frase della Sulamita è un chiaro riferimento astronomico a Ofiuco, dedicato a chi sa comprendere.