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02. Psicanalisi della Madre dei Demoni

divisore

La psicanalisi è lo studio dell’organizzazione del mondo interiore dell’uomo, crogiolo ove si elaborano anche le sensazioni più primitive, tra cui l’angoscia e il senso di colpa, costituisce il nucleo originario di racconti mitologici universali. Tra questi miti, troviamo l’archetipo del lato oscuro del femminino: Lilith, la prima donna, la prima strega.

Tutte le immagini simboliche sono suscettibili di diversi aspetti, dunque sono portatrici di molteplici significati, spesso in contrapposizione tra loro.

Nell’immagine dell’essenza immutabile del femminile, questa ambivalenza è particolarmente evidente e da origine ad un vero e proprio bipolarismo per quanto riguarda la percezione della donna: questa sarà vergine e prostituta, madre e soldato, nutrice e divoratrice, seduttrice e castrante.

Questa rappresentazione immaginale del femminino esprime tutta la sua ambivalenza nel tema Edipico, dove il rapporto del figlio con la madre, figura parentale ma anche archetipale, è vissuto in tutta la sua contraddizione: la madre è allo stesso tempo oggetto di repulsione e desiderio, di trionfo e di colpa, di vita e di morte.

Edipo costituisce la pars maior della tragedia greca, la quale si propone di esorcizzare, per mezzo della rappresentazione teatrale, i sentimenti profondi e universali la cui repressione partecipa largamente alla formazione delle culture.

Nella tragedia di Edipo, l’attualizzazione assolutoria degli amori proibiti da parte del sacerdote-attore, esprime il dramma umano in tutta la sua potenza.

Ontogenesi dell’Angoscia

Di certo sono comuni a tutti gli uomini le emozioni della gioia, della rabbia, del lutto e dell’amore. Nessuna di queste, però, è così universalmente condivisa quanto il trauma della nascita e le forti sensazioni della prima infanzia che, nella formazione dell’individuo, codificano per sempre un “essere all’inizio”, cioè una condizione esistenziale unicamente ricettiva e priva dell’Io.

La reazione durante il parto è stata qualificata da Freud “il pro­totipo fisiologico di ogni angoscia”, dopodiché il neonato è al mondo in uno stato di incompiutezza, di totale impotenza e dipendenza. Ciò scatena un corollario di par­ticolari stati di angoscia e nessun provvedimento, per quanto attento, da parte dei familiari, riuscirebbe a tutelare il neonato – poi adulto – da un vissu­to di angoscia da abbandono.

Numerosi studi hanno esposto nel dettaglio il ruolo determinante che questo dramma dell’immatu­rità imprime nella dinamica di sviluppo della personalità e le sue conseguenze, sia normali che patologiche.

Non dimentichiamo, però, che il neonato conosce anche momenti di pro­fonda gratificazione: corrispon­dono alla soddisfazione dei suoi bisogni, in particolare della fame. Questo senso di appagamento deriva dalla condizione simbiotica vissuta durante l’allattamento, con tutto l’insieme di sensazioni orali e cenestesiche.

Queste due esperienze contrapposte costituiscono il polo positivo e il polo negativo della condizione infantile, collegate l’una all’altra da un senso di dispiacere privo di oggetto, puro e indifferenziato. Si tratta di una sensazione cenestesica non struttu­rata, che solo poco per volta si fa più specifica, manifestandosi attraverso atteggiamenti che potranno essere di due tipi: reattivi o adattivi, ovvero di rivolta o propiziazione.

Queste risposte vengono dirette verso un oggetto che corrisponde alle figure parentali, prima la madre e, solo in seguito, il padre.

Dunque, sono le risposte della madre a costituire i primi elementi di una comunicazione duale, che permettono al neonato di accedere alla gestione delle sollecitazioni. Infatti, la relazione che ogni figlio ha con la propria madre durante i primi anni di vita, costituisce il prototipo esemplare della futura re­lazione con l’altro.

Per rendere ottimale la gratificazione che proviene dalle risposte parentali positive (protezione, nutrimen­to), avviene la costruzione immaginale di “oggetti inquietanti”, su cui scaricare l’angoscia prodotta dalle risposte negative, come la costrizione, la punizione ed altri atteggiamenti che fomentano il senso di angoscia del bambino.

La figura parentale-archetipale investita dal sentimento di angoscia subisce una sorta di ribaltamento negativo, uno sdoppiamento, una metamorfosi demoniaca. 

L’invenzione di oggetti sui quali investire l’ango­scia è uno dei compiti essenziali della psiche e, i processi mobili­tati per raggiungere questo scopo – in particolare proiezione e transfert -, sono alla base di ogni elaborazione mitica.

Il vantaggio che portano con sé queste costruzioni immaginarie è di canalizzare entro direzioni simboliche la paura e l’angoscia del bambino e, in seguito, del­l’individuo, davanti agli effetti distruttivi della propria aggressi­vità.

Proiettando paure e angosce su figure mitologiche demoniache dissociate dall’archetipo parentale, si conferisce loro un effetto esorcizzante. 

L’Orda: Molteplicità e Frammentazione

Un tratto specifico dei demoni è che si essi si organizzano in orde.

Prima di poter essere chiamati con un nome, e quindi, di essere in qualche modo controllati, i demoni sono folla, brulichio, legione. Questa caratteristica rimanda ad un aspetto molto arcaico della psiche, un meccanismo primitivo di difesa dell’Io di fronte ai moti distruttivi, di cui l’Io è sede e bersaglio allo stesso tempo. Tale meccanismo di difesa è la frammentazione.

Per il bambino è una questione vitale riuscire a deviare verso l’ambiente esterno le pulsioni mortifere dirette inizialmente contro se stesso. Il primo bersaglio di questo meccanismo è la madre, anche se presto viene sostituita dalla creazione di oggetti immaginali che permettono al bambino di recuperare il godimento dell’oggetto amato e protettore.

L’Io ha in se stesso l’istinto di morte, di distruzione ab intimo, di cui il carattere endogeno rinforza gli effetti terrifici.

In pratica è insito nell’Io l’istinto di morte e distruzione, causa principale del senso di colpa, di inadeguatezza e di isolamento. Per esorcizzare tali sentimenti, l’Io frammenta le proprie angosce e successivamente le proietta sotto forma di una moltitudine di figure persecutorie.

La frammentazione equivale ad una sorta di “dividere per regnare” e consiste nel ridurre in piccole parti qualcosa che sarebbe troppo grande da affrontare in un solo colpo.

L’insieme dei demoni rimane disordinato, nebuloso, un brulichio, un vociare indistinto, che irrompe nell’oscurità ed assale all’improvviso, generando un terrore inconsulto che lascia l’Io paralizzato, attonito.

Gestire l’orda dei demoni è impossibile: non vi è coerenza né logica. Solo frammentando l’orda ella molteplicità, l’uno che contiene i molti, si possono isolare i demoni e, uno ad uno, li si può influenzare e dominare.

Così facendo, ogni demone assume un carattere ed un aspetto peculiare, poiché i frammenti hanno valenze differenti, sia per il potere psichico investito che per la risonanza nell’ambito affettivo.

Gli atteggiamenti di tipo analitico e riduzionista sono il risultato dell’evoluzione del meccanismo psichico primitivo di frammentazione. 

Questo meccanismo di difesa dell’Io immaturo subisce, nel corso dello sviluppo, gli adattamen­ti richiesti dagli spostamenti libidici dei primi anni, per corrispondere via via alle richieste sempre più potenti e precise dell’istinto, mai de­finitivamente appagato.

Alle pulsioni distruttrici del piccolo, che propongono di succhiare a morte, di prosciugare, di svuotare, e che corrispondono al piacere della suzione allo stato orale primitivo, seguono­­ quelle della divorazione, proprie dello stadio sadico-orale.

Successivamente vi sono le pulsioni di annullamento e di di­struzione, attraverso l’espulsione di feci e l’urina, in corrispondenza con il piacere dell’espulsione correlata alla prima tappa dello stadio ana­le.

Infine, quelle di controllo e di dominio, che corrispondo­no al piacere della ritenzione appartenente al secondo stadio anale.

I differenti aspetti dell’istinto primitivo di morte, così si­stemati nel corso dello sviluppo, si lasciano riconoscere at­traverso specifiche caratteristiche delle loro produzioni immaginali: i mostri sono prima vampireschi, poi divoratori, quindi distruttori e, infine, dominatori.

Su questi ultimi, estremi rap­presentanti persecutori delle proiezioni del secondo stadio ana­le, convergono i tratti temuti del padre edipico e dei diversi rappresentanti del Super-Io.

Procedendo con la maturazione del­l’Io, vi è sempre più la tendenza ad esimersi dal processo arcaico della frammentazione immaginale di oggetti persecutori, e gli innumerevoli demoni anonimi cedono pro­gressivamente il posto a coorti più ristrette, nei confronti delle quali si manifesta un processo di denominazione, e successivamente, di elezione.

La denominazione, processo con cui viene attribuito un nome a “chi era stato fino allora innominato”, segna una tappa decisiva nel lungo cammino che conduce al padroneggiamento delle pulsioni aggressive, ma non elimina ancora il meccanismo di frazionamento: arriviamo quindi ad avere una pleiade di esseri funesti che accompagnano un Demone eletto.

 

Isolamento e Rimozione

Ogni costruzione immaginale di contenuti distruttivi e ansiogeni viene frammentata, ma i frammenti non hanno tutti la stessa efficacia: ognuno differisce dagli altri in relazione all’investimento psichico e all’ampiezza delle risonanze affettive che risveglia, sia nei gruppi umani che negli individui.

Ciò che possiamo intuire dal­ meccanismo psichico della frammentazione, invita alla ricerca di una realtà mitica primordiale più o meno cancel­lata, di cui i racconti e i personaggi mitologici sono in qual­che modo testimoni, e che le tradizioni culturale – orali o scritte, poco importa – avrebbero permesso di trasmettere, ricostruire e fissare.

Le figure mi­tiche isolate si manifestino in due registri. Da una parte, per il loro distacco da un ipotetico contesto mitologico che, in illo tempore, conferiva loro omogeneità e coerenza, hanno perso il va­lore espressivo. D’altra, per il fatto stesso di essere so­pravvissute all’attività delle istanze dissociative, sono portatrici di una forte carica simbolica e affettiva.

La coerenza di queste costruzioni dello spirito, grandi e universalmente toccanti, non si ritrova in tutti i gradi delle produzioni mitiche. Ce ne sono alcune, infatti, che si presentano come risultati di una frammentazione in motivi più ristretti degli ampi affreschi di cui si è trattato in precedenza.

Alla conclusione di questo processo riduzionista, le produzioni mitiche non trattano più di episodi, ma di personaggi sovrannaturali isolati, i cui fatti e le cui gesta si conformano a uno stesso modello, ma senza più essere inclusi in un contesto narrativo e didattico.

L’universalità della produzione mitica, dei te­mi mitici e degli atteggiamenti nei confronti del mito, si accompagnano all’universalità del meccanismo di frammentazione e di iso­lamento, che può essere rapportato, almeno in parte, ai processi di rimozione.

Desiderio e Manducazione

Il neonato non distingue la fame dalla sete in quanto non è in grado di cibarsi, ma solo di succhiare liquidi. Perciò la prima angoscia è relativa esclusivamente alla suzione, mentre l’angoscia divoratrice appartiene al successivo stadio di sviluppo.

Il neonato ha un istinto innato che lo induce naturalmente alla manducazione, non solo con lo scopo di cibarsi. I bambini succhiano il ciuccio fin dalla tenera età anche per alcuni anni e spesso prendono l’abitudine di addormentarsi succhiandosi il pollice.

La manducazione è rassicurante e rilassante per l’essere umano, ma è anche un istinto aggressivo e incontrollato: il bambino piange e strilla finché non trova qualcosa da succhiare per sentirsi appagato, per ritrovare il senso di fusione e unità provato durante l’allattamento. Così egli succhia quanto più gli è possibile, il suo è un succhiare a morte, un prosciugare l’oggetto del suo desiderio, ovvero la fonte del nutrimento: il seno materno.

E’ proprio nei confronti della figura materna che si sviluppa il primo conflitto interiore, in quanto il nutrirsi significa appagare un istinto aggressivo e distruttore, che fomenta il senso di colpa proprio nei confronti della madre.

Sappiamo che durante i primi mesi il neonato vive in simbiosi con la madre, non solo per la dipendenza fisiologica, ma anche perché lo stato  di coscienza neonatale non comprende l’individualità, non separa il sé bambino dal resto del mondo, che consiste nella madre stessa.

Madre e figlio sono inseparabili al punto da essere una cosa sola, l’uno non esisterebbe senza l’altro: la madre senza bambino non sarebbe madre e il bambino senza fonte di nutrimento perirebbe in brevissimo tempo.

Successivamente il bambino prende coscienza della propria individualità e inizia a percepire se stesso come un qualcosa di separato dalla fonte di sostentamento e gratificazione, di cui cerca continuamente di appropriarsi.

Sul piano mentale tale appropriazione è vissuta mediante un meccanismo di identificazione che provoca un rovesciamento: egli identifica se stesso nelle sensazioni positive date dall’appagamento e proietta sulla madre le sensazioni spiacevoli provocate dal desiderio incontrollato, che diventa cupidigia, possessività e avidità, e gli istinti di distruzione e morte che causano in lui il senso di colpa.

E’ il momento della cacciata dall’Eden: la colpa è indice di peccato e la figura creatrice, fino a quel momento infinitamente buona e generosa, assume un carattere collerico e vendicativo, che è considerato principalmente come la proiezione dell’istinto aggressivo-distruttivo.

Tuttavia, non sono da sottovalutare le risposte materne al pianto del bambino: una madre irritata reagisce in maniera brusca, intenta a spaventare il bambino anziché calmarlo, oppure lo lascia piangere confidando nel fatto che smetterà da solo non appena capirà che urlando non otterrà nulla.

Il vissuto di inadeguatezza e abbandono provoca nel neonato un primitivo senso di colpa che, a sua volta, genera la necessità di colmare tale frattura mediante l’espiazione e l’autopunizione. Il sacrificio è, dunque, il metodo primitivo e titanico di mettere a tacere il senso di colpa, da cui deriva l’espiazione del peccato.

Appartengono allo stadio neonatale tutte le figure mitologiche correlate alla manducazione: il Vampiro è dunque la prima creazione archetipica, frutto del senso di colpa, che l’uomo ha proiettato all’esterno di se stesso.

E’ noto che i Vampiri uccido la vittima bevendone il sangue e che devono berlo mentre la vittima è ancora in vita.

Il sangue, figurativamente, è l’energia vitale di ogni essere vivente, la linfa. Inoltre, nell’immaginario collettivo, la figura del Vampiro è sessualmente seducente ma del tutto impotente e sterile. Infatti, al primo stadio di sviluppo psichico, la sessualità è un istinto in germe, non maturo, un vago desiderio di unione vitale, frutto del distacco dallo stato simbiotico. 

 

 Divoramento e Distruzione

L’alimentazione del bambino varia durante il primo anno di vita: dall’allattamento si procede con lo svezzamento inserendo gradualmente i cibi nel panorama alimentare. Ciò offre al bambino continui stimoli, assaporando gusti e consistenze diverse.

Ne deriva che il bambino sviluppa la curiosità e la conoscenza del mondo esterno attraverso la bocca. L’atteggiamento da parte dei genitori di impedire questo suo comportamento risulta per il bambino mortificante, in quanto limita e inibisce la sua curiosità fino a farlo sprofondare nell’apatia e nel distacco dal mondo con cui, in futuro, avrà difficoltà a relazionarsi.

Quando iniziano a spuntare i dentini, il bambino comincia a rosicchiare e prova piacere nel grattarsi le gengive e nel masticare. Con la masticazione il bambino impara a distruggere, provando un senso di grande piacere nel farlo. Anche la  stessa curiosità e il desiderio di conoscere equivalgono alla distruzione. Questa equazione porterà inevitabilmente il bambino a confrontarsi con la propria aggressività e a doverla necessariamente proiettare per dominarla.

Dunque, l’umanità ha attribuito ai suoi demoni anche il divoramento, atto che ritroviamo ancora una volta in stretta analogia con la sessualità (il lin­guaggio amoroso rimanda l’eco di questa asso­ciazione col largo uso di metafore alimentari), che assume una valenza cannibalica.

Nascono così figure seduttrici, in quanto rappresentano l’oggetto del desiderio, ma al contempo terrifiche, poiché incarnano l’aggressività proiettata.

Comprendiamo, dunque, il fascino esercitato sulla nostra psiche da ciò che obiettivamente troviamo orribile e come il binomio seducente-malvagio non contenga in verità nessuna contraddizione.

Queste reminiscenze simboliche sono ridondanze, come spesso accade nelle costruzioni immaginifiche: animalità e seduzione esplicitano e amplificano l’an­nientamento fusionale minacciato dal divoramento.

Nasce così la figura della donna-vampira-cannibale.

A questo punto, però, il bambino non è più passivo e completamente dipendente dalla madre-nutrice. Ora può afferrare, portare alla bocca, strappare coi denti, masticare. La madre perde importanza, mentre viene accettata la figura di un terzo: il padre.

Inghiottimento e Sessualità

Far riferimento al ventre implica riferirsi alle innumerevoli metamorfosi che vi avvengono all’interno, intese come metamorfosi digestive, già abbondantemente usate come metafora alchemica.

Nella digestione i cibi vengono scomposti in modo tale che i nutrimenti possano essere assimilati dall’organismo. Si tratta, dunque, di un processo distruttivo che ha lo scopo di assimilare nuove energie che permetteranno di procedere nell’accrescimento e nella rigenerazione.

In tal senso, la distruzione in se stessa non ha alcunché di negativo, anzi si rivela necessaria e assolutamente positiva. Il termine del processo digestivo sono la minzione e la defecazione, che consistono nella liberazione eliminando le scorie, ciò che non è utile né assimilabile, le tossine che inquinerebbero l’organismo.

A livello psichico, il processo di assimilazione significa anzitutto il prendere in sé, l’accogliere, il farsi carico di determinate esperienze con tutto il relativo bagaglio di sensazioni. Ciò comprende anche una serie di contenuti rimossi che possono riguardare non solo il vissuto individuale, ma anche la parte profonda comune a tutti gli individui, a cui diamo il nome di inconscio collettivo.

Comprendere significa digerire, ancora una volta frammentare, sminuzzare dei contenuti per assimilarli, integrandoli a livello di coscienza. Dopodiché, anche la psiche ha bisogno di eliminare le scorie, di lasciare andare ricordi, sensazioni, esperienze che altrimenti fungerebbero da blocco.

Al contrario, inghiottire significa mandar giù per intero tutto il boccone nella sua completa totalità. Il nutrirsi in questo modo è tipico dei serpenti, che ingoiano la loro preda ancora viva e intera.

Tale atto riconduce psicologicamente alla sessualità femminile: durante il rapporto sessuale la vagina inghiotte il pene che, tra l’altro, si trova proprio al culmine della vitalità che termina con l’eiaculazione, cioè proprio col donare la vita stessa nell’atto della fecondazione, per poi perire.

A tale proposito, le figure mitologiche femminili sono spesso rappresentate da donne aventi la parte inferiore del corpo a forma di serpente o di pesce. 

Una delle figure mitologiche più arcaiche è Echidna, il cui nome significa serpente. Echidna è caratterizzata da un temperamento maschile e aggressivo, pur avendo tutti i connotati femminili e, inoltre, nasce e vive dentro una grotta. Ecco quindi che il serpente, pur essendo un evidente (apparente) simbolo fallico, rappresenta la sessualità femminile. 

In Asia Minore la stessa divinità era chiamata Delphine e aveva la parte inferiore del corpo simile a quella di un delfino. Come ben sappiamo il delfino è ben lungi dall’essere un pesce, bensì è un mammifero provvisto di utero, come è indicato nella sillaba delph, che significa, appunto, utero. 

Il ventre femminile non è solo sede dei processi digestivi, ma anche luogo di concepimento e formazione, cavità primordiale nella quale ognuno sperimenta il suo inserimento nel mondo, il prototipo immaginario di un’altra realtà vitale, nonché il luogo delle tenerezze essenziali e delle prote­zioni inviolabili.

Tuttavia, questo felice rifugio, in seno al quale ripiega­no i desideri umani, si può trasformare in prigione angosciante. 

Un rifugio che non abbandona la sua preda,  che nutre per intrappolare con più sicurezza, è l’immagine della genitrice opprimente e mutilante che trasforma in un luogo di pena infernale il giardino primordiale dell’Eden.

E’ ben evidente l’analogia che accomuna la cavità uterina ad una caverna (simbolo che troviamo facilmente sia nella mitologia che nella fiaba), il cui ingresso è generalmente sorvegliato da un drago, metamorfosi delle Dee-Madri tiranniche e gelose, guardiani  che ne impediscono l’ingresso, ma anche l’uscita, con denti feroci.

La grotta non è un riferimento puramente simbolico: già in epoche molto antiche questi luoghi venivano utilizzati dalle donne per praticare i loro culti e tanto più erano nascosti e impraticabili, quanto più si prestavano allo scopo in quanto creavano i presupposti necessari di segretezza.

Inoltre, proprio in fondo alle grotte si trovano le sorgenti perfettamente riconducibili per simpatia all’intimità femminile.

La parola grotta deriva etimologicamente dal greco kryptos, che significa nascosto, celato. La gestazione è la prova della necessità assoluta di una tale segretezza, poiché qualunque nascita o rinascita può avvenire solo in condizioni di chiusura e protezione dal mondo esterno.

Non a caso, in diversi riti iniziatici comportano la permanenza dell’iniziando in una grotta, o fossa, o foresta, o comunque un luogo ancora selvaggio ed inesplorato dove avrebbe trovato il tesoro nascosto di una nuova consapevolezza, la consapevolezza dell’Io interiore, sorgente di vita.

Conosci te stesso, certo, ma questa cono­scenza tu non la riceverai se non dopo aver vinto i funesti e mal­vagi ospiti che si annidano in queste caverne e dopo essere sceso a patti con loro.

Gli esseri associati alle profondità della terra sono mostri associati agli aspetti malefici della metallurgia, cui l’alchimia fa continuo riferimento. Sono demoni cui bisogna sfuggire: ogni scacco subito segna il carattere di una fusione ctonia, morte regressiva dell’Io che rimarrà intrappolato in una progenie vischiosa e senza speranza.

La grotta si trova spesso nel mare e il mostro che ne è a guardia ha sembianze serpentiformi. Acque e grotte sono luoghi di nascita e di trasformazione e, al pari del ventre materno, racchiudono ogni poten­zialità. Inoltre, le acque con i loro abitatori rappresentano per analogia la dimensione dell’inconscio.

 

Oscurità e Visione

Un’altra caratteristica peculiare del demone femminile è il legame con l’oscurità e la notte, con la conseguente capacità visiva.  

Il carattere notturno riporta al tema dello sguardo proibito: è l’Io che sbircia una creatura misteriosa entro il suo recesso, ma è anche l’Io ad essere spiato da tale creatura.

Ciò lascia spunti di riflessione sulla tematica dello sguardo pericoloso, che la psicologia collega con la visione immaginaria del coito dei genitori, che il bambino immaginerà, in ogni caso, come un’aggressione del padre nei confronti della madre in una relazione sado-masochista.

Questa visione immaginale corrisponde alla sessualità orale (pre-genitale), e all’impotenza in cui si trova il bambino sia di comprendere che di rivolgere la propria pulsione sessuale in una direzione adeguata.

Da questo sentimento nasce l’angoscia della castrazione, e il desiderio edipico nei confronti della madre si radica nel desiderio di fusione pre-genitale.

L’oscurità riattiva, dunque, le percezioni incomprese del bambino riguardo al rapporto sessuale dei genitori, e lascia intuire la potenza emozionale di cui è carica la proiezione della creatura: il guardarla e l’essere guardato da lei blocca e la pulsione stessa, pietrificandola nel senso di colpa e nell’angoscia.

 

Desideri Incestuosi

Il Serpente, simbolo analogico sia del fallo che dell’utero, ha in sé sia l’elemento maschile che quello femminile, ed implica la connivenza di due caratteri paralleli.

Presso molte culture, il serpente rappresenta l’energia generatrice e rigeneratrice che nell’individuo si manifesta come sensualità e tensione erotica.

Questa apparente contraddizione trova il suo equilibrio nella figura dell’Oroboro, il serpente o drago che, mordendosi la coda, si insegue in un anello senza fine, in una coincidenza di opposti.

L’Oroboro è immortale perché rinasce continuamente, dunque è una forza ciclica rigenerante che, in quanto tale, conferisce fecondità, conoscenza intesa come profezia, e persino immortalità.

Occorre, inoltre, considerare la muta dei serpenti che cambiano pelle, fenomeno che certamente fa pensare alla rigenerazione dell’anima immortale in corpi diversi, considerati involucri materiali mortali. 

L’Oroboro è il simbolo del Caos primordiale, che spalanca le sue fauci. E’ la potenza creativa, che nell’individuo consiste nella sessualità. 

Ecco che dal caos nasce il tempo, creatore di tutte le cose, ma ne è anche il divoratore. Inoltre è ciclico, torna sempre a ripetersi e, dopo aver distrutto, ricrea.

Dunque, l’energia rappresentata dal serpente attraverso la rigenerazione può anche guarire e aiutare.  Ciò spiega il fatto che il serpente fu rappresentato nella verga di Esculapio e nel caduceo di Ermete, simboli della medicina e degli speziali.

Il Serpente ha una connotazione ermafrodita, ha in sé le due connotazione femminile e maschile. Ne consegue che l’Oroboro, caos primevo che tutto genera, genera mediante l’incesto.

La tendenza del fanciullo (ma anche dell’adulto) a identificarsi nell’oggetto buono, nell’oggetto gratificante, che è il seno e poi la madre (con le loro metafore), si accompagna al forte desiderio di divoramento dell’oggetto. Ora, tale soddisfazione nel bambino nutrito è anche fonte di fantasmi cannibalici nei confronti dell’oggetto amato, fantasmi i cui echi si ritrovano amplificati dalla ne­cessità della ripetizione dell’appagamento della fame.

Nella misura in cui si rinforzano i meccanismi di introiezione, si aggrava il conflitto tra il desiderio di amo­re pulsioni distruttrici. Timore di rappresaglie e senso di colpa corrispondono a questa sorta di “incesto precoce” di natura orale, costituito dal manducare la madre.

L’attrazione esercitata dal seno femminile ha le sue radici nella funzione nutritiva e nella fusione orale e si contrappone alla fusione genitale, che avviene ad uno stadio più avanzato, quando l’evoluzione della libido assicura la compiuta conver­sione dei desideri da orali a genitali.

Fino ad allora, la fusione genitale sarà interdetta dal carattere orrido e spaventoso della parte bassa del corpo. 

 

Il Volo

Agli esseri acquatici si accostano gli es­seri destinati al volo: il mare simboleggia l’onda femminile così l’iconografia rappresenterà sotto forma di colomba il pneuma creatore, il soffio primor­diale e fondatore – trasformazione santificata dell’aria, mate­ria prima della parola animatrice del Cosmo.

Il volo rappresenta la vertica­lità, l’erezione, la virilità, la forza. Le ali che permettono il volo, movimento ascensionale per definizione, appartengono al simbolismo maschile e sono in relazione con il celo, simbolo universale di felicità e beatitudine che rappresenta la pienezza della coscienza e della conoscenza, la perfezione della vita spirituale e la trascendenza dalla vita fisica.

Il cielo è metonimia degli Dei e con l’avvento delle religioni monoteiste, di Dio stesso.

Dinamismo e spiritualità sono intimamente mescolati nel simbolismo dell’ala e del volo, e gli attributi aeronautici de­gli déi suggeriscono tanto la loro trascendenza quanto la loro potenza.

Il confinamento della caverna è l’antitesi del carattere illi­mitato delle espansioni aeree. La parete opprimente della prigione si contrappone la libertà infinita dei cieli, così come l’ala del volo si contrappone al ventre dell’inghiottimento.

Il volo è infinitamente ricco di molteplici evocazioni, è una sfida alla gravità, alla condizione umana pesantemente legata all’essere terrestre.

Il volo implica anche la velocità: la freccia, unica a raggiungere l’uccello meraviglioso, è munita proprio di una piuma delle sue ali.

Questa piuma, agente del volo, conferi­sce per magia al corpo di chi se ne adorna le qualità dello spi­rito. Infine, è sempre la medesima penna che l’uomo ha scelto per imprimere i suoi pensieri nella materia, scrivendo. Così, tutti gli uo­mini possono raggiungere il cielo sulle ali di un uccello.

 

Come in Alto così in Basso. Come in Cielo così in Terra

Quasi uni­versalmente esiste il ricordo mitico di un legame precocemente spezzato tra la Terra e il Cielo, e la restaura­zione dell’unità troppo presto disciolta fa parte del compito essenziale assegnato a ciascuno.

L’ascensione indica questo sforzo di restaurazione della felicità primaria ed il volo ascensionale è l’unico capace di assicurare la riconquista del paradiso.

D’altra parte, la Terra da cui il Demiurgo modella il corpo del­l’Uomo è, senza ambiguità, un simbolo materno, e le innume­revoli modalità in cui i morti le sono restituiti traducono il desiderio del ritorno. 

La carica simbolica trova le sue fondamenta nel punto d’incontro di queste due dialettiche strettamente intrecciate dell’alto e del basso, del desiderio e del pericolo. Al volo e all’inghiottimento, chiaramente indicanti le due polarità an­tagoniste del desiderio, la fuga e la fusione, corrispondono i pericoli specifici della morte per soffocamento o dilaniamento e della morte per caduta.

Queste due realizzazioni del desiderio, aereo e abissale, presentano una notevole omo­logia, così inghiottimento e volo si combinano: la conquista del cielo corri­sponde alla conquista del mare, dove il mare rappresenta l’inconscio mentre il cielo rappresenta l’acquisizione della coscienza di sé.

Il Nome

Il Volo è correlato all’Elemento Aria, e dunque al pneuma e al soffio con cui si forma la parola animatrice del Cosmo, ed è legato ad un’altra dimensione della fase orale: quella del suono e del linguaggio.

L’associazione mano-bocca, retaggio del sistema afferrare-succhiare del lattante, si mantiene costante durante l’evoluzione: dallo stesso campo neurologico da cui proviene la capaci­tà del movimento della mano e degli organi facciali, deriva­no anche le espressioni arcaiche dei messaggi gestuali e dei messaggi verbali.

Comunicazioni mimiche o acustiche sono fisiologicamente, se non equivalenti, per lo meno strettamente imparentate, infatti il gioco muscolare sembrerebbe fornito di una capacità di significazione simbolica.

Le espressioni “padronanza del gesto” e “padronanza muscolare”, fanno pensare a idee di contenimento e di dominio di una forza sel­vaggia, di cui muscolatura e gesto sarebbero originariamente investi.

Qui risiede il legame antropologico tra violenza e pa­rola, di cui la fisiologia ci ha rivelato la relazione biologica: in pratica la parola si sviluppa dalla violenza.

E’ ciò che sembrano ricordarci i “miti del linguaggio”, che fanno tutti riferimento a un ìllud tempus in cui gli uo­mini parlavano la stessa lingua e non si davano problemi d’in­tesa e di comunicazione. La con­fusione delle lingue interviene successivamente come punizio­ne – o semplice conseguenza – dell’atto aggressivo. Le manifestazioni del sentimento aggressivo vanno dalla orgogliosa rivalità al divoramento cannibalico.

La natura della manifestazione aggressiva è quella di una nevrosi ossessiva che trova le sue radici nello stadio anale: assumendo il controllo degli sfinteri il bambino apprende i meccanismi di ritenzione e di dominio.

Nello stesso periodo è già presente anche l’archetipo-parentale paterno, i cui sistemi di condotte prescrittive o di evitamento hanno la funzione simbolica di proteggere il bambino dal rischio di una scari­ca violenta della sua pulsione aggressiva e dalle sue conseguenze.

L’attitudi­ne individuale alla padronanza del gesto, dominato secondo certe norme, ha permesso alla specie umana lo sviluppo delle società, a cui spetta la gestione dell’aggressività dell’individuo attraverso le strutture sociali e le costruzioni culturali.

La relazione di equilibrio tra violenza e linguaggio interviene sin dalla nascita: la stessa aggressione orale del lattante si organizza progressivamente nella coordinazione facciale e prelude allo sviluppo del gesto e del linguaggio.

Tuttavia la parola continua a testimo­niare l’esistenza di una violenza latente, sfuggente, ma sem­pre presente sotto la fragilità della scorza cerebrale.

Dare un nome a qualcuno significa chiamarlo in vita: nominare è agire sull’ani­ma, è fare violenza, è impadronirsi della potenza di chi vie­ne nominato. L’origine della preghiera e dell’incantesimo risiede nella convinzione di appropriarsi della forza di colui al quale ci si rivolge.

Il nome del demone è spesso l’equi­valente del suo sguardo: essere nominati è in qualche modo come perdere la vista, come Lamia che una volta accecata perde il suo potere malefico, o come Medusa che vedendo se stessa in uno specchio muore pietrificata.

Nominarsi vuol dire scoprire se stessi, ma è anche consentire l’accesso alla propria intimità: è già sottomettersi.

La denominazione degli esseri fu probabilmente la prima acquisizione del linguaggio umano e la parola denominatrice è già di per sé potenzialmente pericolosa. È questa la ragione delle proibizioni dirette alla rivelazione del proprio nome agli estra­nei e del fatto che alcune società attribuiscono ai loro mem­bri nomi segreti, considerati parti essenziali della personalità.

Il nome, elemento primario del linguaggio, nasconde in sé una valenza mortifera, e l’identità sociale che conferi­sce al soggetto l’associa a costrizioni di ogni tipo, tramite cui la società si propone di controllare l’istintualità. Così violenza e frustrazione sono già inscritte nel nome in se stesso.

In conclusione: suzione, divoramento e assorbimento sono legati alla boc­ca, così come denominazione, linguaggio e comunicazione.

Il linguaggio deriva dalla fase orale della libido e dell’organizzazione dell’Io, e serve alla comprensione tra gli uo­mini, mentre il prototipo di tutte le relazioni interpersonali è la relazione madre-figlio.

Porgendo al figlio il seno-nutrimento, la madre insegna al bambino l’equivalenza del primo suono pro­dotto e della sua propria persona, mentre entrano in gioco le dialettiche di due aggressioni perfettamente complementari: quella del bambino nei confronti dell’oggetto ambivalente, e quella della madre nei confronti dell’oggetto da reincorporare.  

Tutto questo interviene nel corso di un evento altamente regressivo, che induce la riattivazione di ricordi della pro­pria infanzia, di cui il monologo o la ninna nanna sarebbero una rappresentazione simbolica del “mangiare il bambino”, forma d’amore, d’aggressione e di comprensione, intesa proprio come il prendere in sé.

Così si chiude il circolo dell’oralità e della violenza: il di­vorare violento del bambino conduce al linguaggio, veicolo essenziale della comunicazione e della relazione, suggellate dal linguaggio materno in una fantasia di reincorporazione.

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