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10. I Mantra

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Cos’è un Mantra

La parola Mantra मन्त्र è un sostantivo maschile sanscrito composto dal verbo man e dal suffisso –tra.

 Il verbo “man” significa pensare. Da questo termine deriva anche la parola “manas”, che significa pensiero, mente, intelletto e talvolta è inteso anche come principio spirituale.

Il suffisso –tra ha valore di strumento, di qualcosa che compie, che agisce. Dunque il significato della parola Mantra, tradotta letteralmente, è “strumento del pensiero”.

Un’altra interpretazione vede la parola sanscrita “tra”, che ha il significato di “offrire protezione”, unita al verbo “man”, ed assegna al termine Mantra il significato di un modo di pensare o di un tipo di pensiero che offre protezione. 

Infine, nella religiosità hindu, il termine Mantra conserva il significato originario di “formula magica”. 

In questo senso, è da notare che in tale significato è implicito il fatto che l’efficacia della formula non dipende affatto dalla partecipazione interiore di chi la pronuncia. 

La formula del Mantra, dunque, possiede un suo potere intrinseco.

I testi risalenti alla fine del II millennio a.C. inerenti al Sāmaveda, mostrano come l’importanza dei Mantra non risiedeva tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità.

Infatti, molti di essi risultano intraducibili e non comprensibili. Questo tipo di Mantra è chiamato stobha e ne sono un esempio le parole “bham” o “bhā”, intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda.

Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole incluse.

In tal modo, la parola oltrepassa il campo d’interesse della grammatica o della fonetica per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. 

Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei Mantra.

I BijaMantra – Mantra Seme

Un altro tipo di Mantra sono i cosiddetti “bīja”, che significa “seme”. 

I bija sono monosillabe che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti ad esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino.

Spesso questi semi verbali sono combinati tra loro, costruendo in tal modo un Mantra, oppure adoperati come Mantra essi stessi, così da essere chiamati “BījaMantra”.

Ai Bija Mantra sono attribuite funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. 

Tutti e cinquanta i fonemi dell’alfabeto sanscrito possono essere utilizzati come Bija Mantra, singolarmente o variamente combinati. 

Sanscrito alfabeto 1

Inoltre, ogni fonema può corrispondere ad una divinità. Tra i Mantra delle divinità hindu più conosciuti in occidente troviamo:

AĪṂ 

Aim Sankrit

E’ il bija Mantra di Sarasvati, dea della musica, del linguaggio e dell’intelligenza. In generale è la dea della conoscenza. Questo bija Mantra dà l’idea di intelligenza creativa, del potere organizzativo e creativo della natura. È considerato il Bija Mantra della creazione.

 

HRĪṂ

Sanskrit Hrim

È associato alla dea Kali, distruttrice dell’illusione e del dolore, che permette alle persone di sperimentare la loro vera natura.

Hrim  è l’idea dell’energia primordiale dietro tutte le cose.

 

ŚRĪṂ 

Shrim mantra

È associato alla dea Lak, dea  la dea dell’amore, della devozione, della bellezza e dell’abbondanza. Questo bija Mantra dà l’idea di Soma, la possibilità di coerenza che consente l’esistenza dell’universo materiale.

 

GAṂ 

Gam Sanskrit

Associato il dio elefante Ganapati o Ganesha, che rimuove tutti gli ostacoli.

Questo bija Mantra rappresenta l’idea della creazione di uno spazio in cui può accadere qualcosa o adeguato alla realizzazione di  qualcosa.

Altri Bija Mantra molto conosciuti in occidente sono quelli corrispondenti ai sette Chakra, nonché ai cinque Tattva. 

Nella Yogatattva Upaniad i bīja, corrispondenti ai cinque Elementi sono messi in relazione con cinque parti del corpo: 

  • Terra: dalle caviglie alle ginocchia; 
  • Acqua: dalle ginocchia al retto; 
  • Fuoco: dal retto al cuore; 
  • Aria dal cuore al Terzo Occhio; 
  • Etere: dal terzo Occhio fino alla sommità del capo. 

La recitazione dei Bija Mantra corrispondenti permette di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo. 

Infine, la recitazione dei Bija Mantra, come per tutti i Mantra in generale, viene spesso accompagnata dalle Mudra, che sono gesti e posture specifici delle mani, di cui tratteremo in un altro articolo. Questa pratica è frequente soprattutto nelle scuole tantriche.

I Bija Mantra e i Chakra

Altri BijaMantra molto conosciuti in occidente sono quelli corrispondenti ai sette Chackra, nonchè ai cinque Tattva.

Nella Yogattatva Upaniṣad i bīja, corrispondenti ai cinque Elementi sono messi in relazione con cinque parti del corpo:

  • Terra: dalle caviglie alle ginocchia;
  • Acqua: dalle ginocchia al retto;
  • Fuoco: dal retto al cuore;
  • Aria dal cuore al Terzo Occhio;
  • Etere: dal terzo Occhio fino alla sommità del capo.

La recitazione dei BijaMantra corrispondenti permette di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.

Infine, la recitazione dei BijaMantra, come per tutti i Mantra in generale, viene spesso accompagnata dalle Mudra, che sono gesti e posture specifici delle mani, di cui tratteremo in un altro articolo. Questa pratica è frequente soprattutto nelle scuole tantriche.

 SAUH

ShamSimbolo dell’energia divina nella sua origine, seme dell’universo, così come scritto nel Tantrālokadi Abhinavagupta: S è sat (l’essere); AU è l’energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il Mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza e  l’immanenza divina nel mondo. E’ associato anche al settimo Chakra.

Mudra dei chakra 7

AUM 

AUM

Om; associato anche al sesto Chakra o Terzo Occhio. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell’Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi Mantra, sia come Mantra in sé.

Le lettere che compongono il bīja sono A, U ed Ṃ. Nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. 

Mudra dei chakra 6

HAṂ 

HAMQuinto Elemento o Etere; associato anche al quinto Chakra

Mudra dei chakra 5

 

 

 

 

YAṂ

YAMElemento Aria; associato anche al quarto Chakra

Mudra dei chakra 4

 

 

 

 

 

RAṂ 

RAMElemento Fuoco; associato anche al terzo Chakra

Mudra dei chakra 3

 

 

 

 

VAṂ

VAMElemento Acqua; associato anche al secondo Chakra

Mudra dei chakra 2

 

 

 

 

 

LAṂ

LAMElemento Terra; associato anche al primo Chackra, Muladhara.

Mudra dei chakra 1

 

I Mantra nei Veda

I Mantra sono, di solito, frasi estrapolate da testi sacri hindu e, per questo motivo, devono essere categoricamente recitati in lingua sanscrita, ad alta voce, sussurrando o anche solo enunciandoli mentalmente. 

Nella più antica letteratura vedica, il Mantra è essenzialmente un inno o una preghiera che ha la funzione di invocazione ai deva, al fine di ottenere benefici mondani, ad esempio la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita.

I Mantra vengono recitati durante i rituali dai sacerdoti detti comunemente bramini. Tuttavia, i sacerdoti hindu si differenziano a seconda delle loro funzioni, che prevedono anche una diversa intonazione di differenti Mantra.

Uno dei temi trattati nel Rigveda (risalente ad un periodo incerto, comunque a cavallo tra il XX e il X secolo a.C.) è la funzione sacerdotale del dio Agni (fuoco). Il Rigveda si rivela un vero e proprio manuale in merito alle attività sacerdotali, la cui prima funzione, detta Hotr, è quella di officiante delle libagioni.

In seguito, al dio Agni viene assegnata anche la funzione di Brahmino, di Adhvaryu, di Potṛ, di Neṣṭṛ, di Agnīdh, di Gṛapathi e di Praśāstṛ, identificando in questo modo otto diverse funzioni sacerdotali. A queste otto funzioni vennero fatti corrispondere sacerdoti specifici che, a loro volta, corrispondevano alle otto classi sacerdotali delineate anche nell’Avesta e dunque di probabile derivazione indoeuropea.

Nel successivo sviluppo vedico (intorno al X secolo a.C.), i compiti dei principali officianti (ṛtvij) del rito più importante, quello del Soma (haoma dell’Avesta), si distinsero  in sole quattro qualità sacerdotali: Brahmino, Adhvaryu, Udgātṛ e Hotṛ. Ognuno di questi quattro sacerdoti veniva coadiuvato da ulteriori tre assistenti (samhita).

All’Hotṛ era assegnato il compito di recitare a voce alta gli inni metrici del Rigveda.

L’Aadhvaryu mormorava i versi in prosa detti Yajus contenuti nello Yajurveda;

L’Udgātṛ intonava i versi del Samaveda. La stessa parola sāman è traducibile con “canto”, “inno”, “melodia”, e il riferimento è ai Mantra cantati dall’officiante durante i riti.

Infine, al Brahmino veniva affidata la recitazione del quarto Veda, l’Atharvaveda, essendo gli atharva le formule propizie adoperate durante alcune cerimonie sacrificali.

Il Brahmino però aveva anche il compito di controllare e sovrintendere all’intero rito e il controllo della recitazione degli altri tre Veda, rappresentando, l’Atharvaveda, il loro compimento.

Sempre nel Rigveda (X-71,11) i compiti dei quattro officianti vengono dunque riassunti nel singolo Brahmino, essendo costui quello che rappresenta l’intero sacerdozio in quanto sa, conosce (vidya) ed esprime il brahman. Il Brahmino è, dunque, colui che è in grado di conoscere e insegnare la rivelazione cosmica.

Questo sviluppo della letteratura vedica portò ad identificare nel termine Brahmino gli interi compiti della casta sacerdotale.

Successivamente, nei Brāhmaṇa che ricordiamo essere i commentari dei Veda, il Mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore fu ritenuto il Mantra silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa). 

Queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei Mantra.

Nella tradizione successiva divenne poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscere il significato dei Mantra quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione.

Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere riconosciute sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all’interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

L’atto di enunciare un Mantra è detto uccāra e ha a che fare con il controllo della respirazione (pranayama). Uno dei significati di uccāra è “movimento verso l’alto”, e difatti nella visualizzazione interiore il Mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l’energia interiore.

La ripetizione rituale di un Mantra è detta japa e di solito è praticata servendosi dell’akṣamālā, praticamente un rosario hindu, composto di solito da 108 grani. Tuttavia ci sono Mantra che vengono ripetuti un numero indefinito di volte.

La ripetizione ha la funzione di distruggere il linguaggio, di mandare in blackout la mente razionale al fine di potersi aprire a nuove condizioni di coscienza.

Oltre che ad essere utilizzati nelle meditazioni, i Mantra sono parte integrante della ritualistica. Per fare un esempio di come vengono impiegati i Mantra all’interno di un rituale, ho deciso di descrivere un rito sacrificale di invocazione. 

 

Yajña: il Rito Sacrificale

Sebbene lo yajña sia il rituale per eccellenza in ambito brahmanico, in nessun testo ne viene mai data una definizione chiara e univoca, svincolata da metafore o tautologie.

Fin dai testi più antichi è fiorita intorno allo Yajña un’esegesi spasmodicamente minuziosa, al punto che conosciamo non solo contesto, modi e tempi, ma anche dettagli sulle figure professionali preposte, sull’ordine delle azioni e delle formule impiegate, sugli utensili, sulle materie oblative ecc. 

L’espressione Yajna risale al periodo degli inni vedici e deriva dalla radice yaj che significa adorare. Gli adoratori si chiamano Yajamana.

L’oggetto dell’adorazione è chiamato Yajata e si riferiva a manifestazioni senza forma dell’Essere Supremo, per la cui adorazione non era necessaria la presenza di alcun tempio materiale, ma semplicemente di un altare denominato Vedi.

Dunque, gli Yajamana, per mezzo della recitazione dei Mantra, invocano lo Yajata, cioè la divinità, affinché sia richiamata nel luogo del sacrificio. Questa fase del rito è conosciuta come Avahana.

Il passaggio successivo, detto Ahuti, consiste nel sacrificio della oblazione, con la quale si offre qualunque cosa il celebrante ritenga cara e degna di questo atto.

L’atto del sacrificio che consiste essenzialmente nel gettare nel fuoco una porzione minima dell’alimento o della bevanda offerta è detto Juhoti.

Dunque, ciò che veniva sacrificato consisteva essenzialmente in frutta o verdure (auṣasha), burro chiarificato (ghṛtha o ājya), latte (payas), carne (māṃsa), cagliate (dadhi), farinate (piṣṭa), riso in chicchi (taṇḍula), riso bollito e pigiato (pṛthuka), pelle (tvac) etc. Il sacrificio per eccellenza consisteva nel Soma, cioè il succo ricavato da una particolare pianta ritenuta oggetto di offerta sacrificale (yajña) nel Vedismo.

Le oblazioni vengono sempre offerte al dio Agni, rappresentato dal fuoco allestito sull’altare (Vedi).

Possiamo quindi stabilire che l’essere umano avvicina la divinità per il tramite di Agni, il fuoco, mentre il rituale del sacrificio è il mezzo con cui gli uomini scambiano doni con gli dèi.

Ogni azione del rito sacrificale prevede la recitazione di una precisa formula attinta dai Veda. Di conseguenza, ogni particolare rito sacrificale richiede un’accurata scelta dei Mantra, il cui scopo è di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte.

Il sacrificio vedico può essere celebrato in qualsiasi luogo scelto, il che si adattava alla vita seminomade degli antichi arii. Tuttavia, una volta scelto, il luogo deve essere delimitato e preparato con grande cura e precisione, con specifiche aree deputate a riti particolari.

Anche gli attrezzi adibiti al sacrificio (vasi, coppe, mestoli, etc. collettivamente indicati con il sostantivo maschile sambhārá) provenivano da quelli utilizzati durante la vita quotidiana e resi sacri sul momento.

L’atto di offerta al fuoco è detto Agnihotra (offerta al fuoco), da cui il nome del sacerdote addetto all’offerta delle libagioni: Hotr.

Il numero dei fuochi rituali dipendeva dalla solennità dell’Agnihotra: per il rito domestico (grhya) era sufficiente un fuoco mentre per le celebrazioni solenni (śrauta) occorrono tre fuochi. 

I fuochi devono rimanere accesi per tutta la durata del rito. Lo spegnimento di un fuoco rituale è foriero di sciagure e comporta il dover officiare dei rituali riparatori.

Anche per evitare spegnimenti accidentali, i fuochi sono sovrastati da una lunga copertura orientata verso Est e dotata di quattro ingressi.

Il fuoco più importante, denominato Gārhapatya, è posto ad Ovest su una sede circolare. Esso rappresenta la dimora dell’Agni originario. Da questo fuoco, alimentato esclusivamente dal capofamiglia, dalla moglie o dal primogenito, è attinta la fiamma per il secondo fuoco.

Il secondo fuoco è posto a Est su una base quadrata ed è chiamato Ahavanīya. Esso rappresenta la sede dell’Agni sacrificante. A settentrione dell’Ahavanīya viene collocato un recipiente d’acqua.

Il terzo fuoco è detto Anvāhāryapacana ed è posto a Sud su una base semicircolare e si trova a destra dell’officiante quando egli è rivolto verso oriente. Questo fuoco è il fuoco che consuma con i suoi sacrifici i pericoli e la morte (mṛtyu) che provengono dal Meridione. Inoltre è di supporto al fuoco orientale in quanto in esso viene sacrificato il riso.

Tra il Gārhapatya e l’Ahavanīya si crea il luogo chiamato Vedi, che è il luogo in cui vengono poste le offerte sacrificali e dunque anche il luogo in cui prendono posto gli Dei convenuti per saziarsi delle libagioni e degli inni.

Lo spazio della Vedi viene adibito al ruolo togliendo lo strato superficiale della terra e ricoprendolo con erba tagliata ed è di forma trapezoidale: la parte superiore (lato stretto) è rivolta ad Est, mentre la base (il lato largo) è rivolta ad Ovest. Esso ricorda le forme di una donna dai fianchi larghi (il lato ad ovest) e le spalle strette corrispondenti al fuoco Ahavanīya.

La terra rimossa (utkara) viene posta a Nord, insieme ai rifiuti e viene bruciata dopo la fine del rito in quanto,  essendo stata a contatto con il sacro, la si considera potenzialmente pericolosa.

Nel sacrificio animale (paśubandha) allo spazio descritto si aggiunge un ulteriore spazio denominato mahāvedi (Grande Vedi).

Una volta creati gli spazi e sacralizzati gli strumenti, inizia il rito vero e proprio.

Lo Yajamāna, che abbiamo visto essere colui che chiedeva l’effettuazione del rito e che ne ottiene i benefici o le avversità nel caso di un rito dall’esito infausto, non partecipa direttamente al rito ma rimane seduto a sud dello Ahavanīya.

Gli esecutori del sacrificio, spesso eseguito dietro un compenso (per lo più in oro o vacche), erano i sacerdoti (ṛtvij), il cui numero dipendeva dalla solennità del rito.

  • lo Hotṛ si sedeva Nord-Ovest della Vedi;
  • lo Agnīdhra, il sacerdote che rappresenta Agni, accende il fuoco e si siede a Nord della Vedi. 
  • il Brahmanad si posiziona ad Est dello Yajamāna;
  • lo Adhvaryu si muove lungo lo spazio senza avere una collocazione precisa. E’ generalmente deputato allo Juhoti e recita i versi dello Yajurveda. Nei riti più complessi è coadiuvato da altri sacerdoti.

Nelle normali offerte di ghṛtha che avviano e seguono le offerte di vegetali (offerta principale, pradhāna) lo schema rituale è il seguente.

L’Adhvaryu si pone in piedi davanti al fuoco sacrificale e invoca lo Agnīdhra proclamando: Oṃśrāvaya (possa ascoltarci).

L’Agnīdhra risponde: Astu śrauṣaṭ (così sia; si ascolti).

L’Adhvaryu invitava lo Hotṛ, il sacerdote collegato al Ṛgveda, a recitare le formule dell’offerta (yājyā) indicando la divinità a cui è indirizzata.

Lo Hotṛ avvia il Mantra iniziando con “ye yajāmahe” (noi veneriamo) e concludendo con “vauṣaṭ”, termine che consente all’Adhvaryu di versare l’offerta nel fuoco.

Nel frattempo, lo Yajamāna pronuncia un verso, denominato tyāga (abbandono, rinuncia), a favore della divinità. Ad esempio, se l’offerta è dedicata al dio Agni, lo Yajamāna recita: “agnaye idam na mama” (ad Agni, non per me).

Qualche osservazione sul rito sacrificale

La presenza ingombrante della pratica del rito e la mole straordinaria dei particolari che l’accompagnano, hanno sempre oscurato l’autentica natura del rito sacrificale stesso.

Nel rituale vedico, Agni, dio del fuoco, è sempre presente nei riti sacrificali, anche quando il sacrificio è dedicato ad altre divinità.

Possiamo quindi stabilire che l’essere umano avvicina la divinità per il tramite di Agni, il fuoco, mentre il rituale del sacrificio è il mezzo con cui gli uomini scambiano doni con gli dèi.

Il fuoco è dunque l’elemento di transizione tra l’umano e il divino, ed anche l’elemento di scambio, che agisce trasformando l’offerta umana in dono divino.

Il Rig-Veda descrive il rito sacrificale composto di tre parti: Agni, il fuoco in cui viene sacrificato il Soma, l’offerta, e il Vayu, cioè il processo per versare il Soma in Agni, l’offerta nel fuoco. 

Riguardo ai doni divini, nella letteratura religiosa vedica, intesa come i Veda e i loro commentari Brāhmaṇa, e nei riti sacrificali riportati, non si riscontra alcuna riflessione sulla sofferenza nel mondo, sul ciclo delle rinascite (saṃsāra) né sui percorsi di liberazione (moksa) da esso.

Il tema principale è, piuttosto, il godimento (bhukti) della vita terrena.

Di conseguenza, il rito sacrificale ha come scopo il benessere materiale e il godimento della vita ottenuti grazie alla benevolenza dei deva invocati. Si sacrifica dunque un bene materiale per un altro bene materiale. Si rinuncia ad una forma per liberare l’energia in essa contenuta (fuoco) ed utilizzarla per ottenere un’altra forma.

Per comprendere questo passaggio, occorre analizzare il simbolismo del rito.

In un yajña, Agni il fuoco ha tre aspetti: origine, trasformazione, conservazione.  Questi tre fuochi, accesi durante il rituale, rappresentano i tre Guna o modalità dell’energia Creatrice.

Il fuoco trasformatore, che interessa il sacrificio, è il secondo ed è posto su base quadrata. Questo fuoco ha quindi quattro lati o aspetti, corrispondenti ai quattro ritvik o sacerdoti, correlati a loro volta ai quattro Veda.

All’interno di questi quattro lati, Agni è illuminato e il Soma è offerto utilizzando Vāyu.

Infine, ecco cosa troviamo scritto nella Bhagavad Gita rispetto ai diversi tipi di Yajña: 

Alcuni yogi adorano perfettamente i semidei offrendo loro diversi sacrifici, e alcuni offrono sacrifici nel fuoco del Brahman Supremo.

Alcuni sacrificano il processo uditivo e i sensi nel fuoco della mente controllata, altri sacrificano gli oggetti dei sensi, come il suono, nel fuoco del sacrificio.

Coloro che sono interessati all’autorealizzazione, in termini di controllo della mente e dei sensi, offrono le funzioni di tutti i sensi, così come la forza vitale [respiro], come oblazioni nel fuoco della mente controllata.

Ci sono altri che, illuminati sacrificando i loro beni materiali in gravi austerità, prendono voti severi e praticano lo yoga dell’ottuplice misticismo, e altri studiano i Veda per il progresso della conoscenza trascendentale.

E ci sono anche altri che sono inclini al processo di trattenimento del respiro per rimanere in trance, e si esercitano a fermare il movimento del respiro in uscita in entrata e il respiro in entrata in uscita, e quindi alla fine rimangono in trance , fermando tutto il respiro. Alcuni, limitando il processo alimentare, offrono il respiro estroverso in se stesso, come sacrificio.

(Bhagavd Gita 4, 25-29)

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